Restano, nonostante la brexit, gli attentati terroristici e i grattacieli che bruciano, delle buone ragioni per cui vale comunque la pena andare a Londra.
La prima, ad esempio, un passaggio alla Tate Gallery per visitare la mostra di Alberto Giacometti e un’altra quella di cadere nel suono dei Pink Floyd nella esposizione “Their mortal remains” allestita al Victoria Albert Museum.
Di entrambe colpisce la compattezza dell’opera.
Alberto Giacometti, scomparso nel 1966 all’età di 65 anni, in oltre 40 anni di attività attraverso il disegno, la pittura e la scultura, dal cubismo al surrealismo fissa figure immobili rigidamente frontali isolate dallo spazio ed immerse in un vuoto che dalle suggestioni ricevute dell’arte etrusca lo conduce nel dopoguerra ad avvicinarsi fortemente al pensiero esistenzialista di Jean Paul Sartre. Un percorso di unitarietà totale della sua avventura artistica che in questa ricchissima personale londinese risulta assolutamente evidente.
Altrettanto unitaria, pur nella sua variegata diversità formale, è la monumentale opera dei Pink Floyd che dalle esperienze psichedeliche di Syd Barret e dalle luci liquide dei primi show, percorre un viaggio sperimentale attraverso embrioni di nuova tecnologia, suoni e strumenti, in una ricerca spaziale del suono verso il gigantismo architettonico del muro o della devastazione post-industriale della centrale di Battelsea.
Dentro questi scenari i Pink Floyd non temono la solitudine di una performance realizzata tra le rovine dell’anfiteatro di Pompei, ma neppure le masse oceaniche dei loro tour e concerti in cui offrono la perfezione dell’immagine e del suono. Curano l’evoluzione delle loro copertine da cui scompaiono i loro volti per dare spazio ad uno straordinario immaginario surreale. Sul piano del suono e della tecnica attraverso la quadrifonia hanno una cura perfezionistica dei loro live.
Tutto questo è raccolto in questa mostra antologica che parte dal loro primo piccolo furgone per le trasferte per terminare nell’ultima apparizione che li ha visti ancora, e un’unica volta, insieme al “Live Aid”.
E quando la musica si spegne è proprio “il figliol prodigo” Waters a chiamarli per unirli nell’abbraccio ed inchino al pubblico, a dimostrare che le strade si sono divise, ma restano segnate da quell’unicità che è stata la loro chimica irripetibile.
Renzo Sicco