Il mio ultimo grande lavoro teatrale è stato realizzato su di una spiaggia di fronte all’oceano Atlantico in Portogallo.
Quell’esperienza mi ha fatto vivere tra pescatori. Per me, uomo di pianura ai piedi delle Alpi, è stata un’esperienza davvero inusuale. Un’avventura che mi ha fatto ricordare molto quella vissuta anni addietro con i minatori della Val Germanasca a Prali.
Entrambi, minatori e pescatori, sono comunità in estinzione e, per di più, senza alcuna protezione. Piccole enclavi in cui i modelli di vita ed i valori sono sedimentati e chiusi su se stessi, anche se ormai inficiati di scarpe Nike e felpe Abercrombie o giacche a vento North Sails. Così la modernità e la globalizzazione si infiltrano dentro un substrato culturale millenario solido, benché scalfito.
Un giorno ero con loro sulla spiaggia, tra le barche e le reti, l’aria del nord era gelida ed è arrivato un bel ragazzone, avvolto nei suoi jeans e in una t-shirt dalle maniche corte, nient’altro. Faceva venir freddo solo a guardarlo, ma lui non guardava, o meglio, vedeva oltre. Si muoveva veloce, quasi a balzi, zigzagando sulla sabbia. Di colpo si fermava e parlava da solo, fra se e se, a voce alta tra i voli dei gabbiani. Mi ha fatto tornare alla mente un piccolo libro letto 30 anni fa. “Di niente, del mare” pubblicato da Sellerio, raccontava la storia di un pescatore siciliano che, come quel ragazzo, parlava solo o con i gabbiani e per questo era considerato “diverso”.
Adesso che il mio tumore non mi accompagna più e se ne è andato, ho deciso di mettere in scena quella storia, molto intensa ed emozionante.
Oggi pare che il mare sia l’ultima onda di tranquillità che si possa offrire di questi tempi. Se, per caso, navigate su youtube tra i video musicali di Tiziano Ferro, Marco Mengoni, Michele Bravi e in ultimo anche di Samuel, li vedrete tutti camminare sul bagnasciuga con lo sguardo verso le onde.
Io da alcuni anni ho scelto di abitarci e mi sono trovato sull’oceano portoghese, su quelle spiagge che sono la frontiera di un’Europa in dissoluzione e che contengono lo sguardo e la storia di marinai e pescatori che il mondo oltre l’Europa l’hanno cercato e scoperto in tempi lontani e, altresì, non meno carichi di tensioni.
Sono stato anche in Sicilia, da Trapani a Siracusa, tra Palermo e Portopalo, in mezzo a quei pescatori che salvano naufraghi o trovano nelle loro reti non solo pesci ma resti di vite umane, maglie, scarpe e libri come il Corano. Io che vengo dalla pianura racconto il mare e lo faccio attraverso il lavoro di un altro piemontese, Paolo Taggi, un giornalista di Novara che mi ha offerto i suoi ricordi di una trasmissione che ha trasformato l’Italia. Si chiamava “Chiamate Roma 3131”.
Era la prima volta in cui il Paese stesso si raccontava. Gli ascoltatori diventavano autori narrando le loro storie. Lo facevano senza la supponenza, la volgarità e la violenza verbale con cui intervengono oggi in veste di tuttologi. Si raccontavano ed era una grande alfabetizzazione culturale collettiva.
Racconto così la storia di “Gesù Bambino”, non quello di Betlemme, ma uno come quello della canzone di Lucio Dalla. Ve la ricordate? Se non la conoscete non importa, magari vi verrà voglia di ascoltarla…dopo che vi avrò raccontato la storia.
Ah! Dimenticavo, lo spettacolo debutta alla Sala Arpino di Collegno il 25 febbraio. Ha due bravi interpreti.
Vi aspetto.
Renzo Sicco