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Perché Matilde non ne ha mai parlato?
di Renzo Sicco
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Sono stato il primo quattordici anni fa, incontrando Manuel Araya, a ricevere la sua confessione sulla fine di Pablo Neruda. Mi sono chiesto diverse volte perché. Certo, come sempre accade nelle dittature un estraneo, uno straniero, rendeva più facile l’ascolto e possibile il desiderio di confessare, di buttare fuori.
Non ricordo quando ho pensato la prima volta di scrivere un testo teatrale sugli ultimi giorni di Neruda. Eravamo stati in tour in Cile e, con alcuni attori della compagnia, ero tornato a Isla Negra nella casa dove il Poeta visse gli ultimi mesi. Mi ero reso conto che della vita di Pablo si conosceva molto, ma per gli effetti devastanti del golpe e del silenzio creatosi attorno, non si sapeva molto dei suoi ultimi 12 giorni di vita, tranne di come il suo funerale si fosse tramutato in una inattesa ed unica manifestazione contro il regime.
Così iniziai a raccogliere informazioni, a leggere articoli, a carpire notizie dentro ai libri più diversi su quel periodo, a incontrare testimoni sopravvissuti al terrore di quei giorni, mesi, anni. Quando mi sembrò di avere materiale a sufficienza, iniziai a scrivere e poi diedi le prime stesure da verificare a Luis Sepúlveda. Era infatti l’unico in grado di esercitare una supervisione di quel materiale e di scrivere un’orazione funebre, per la statura del personaggio, che potesse degnamente sugellare il lavoro.
Facendo seguito ad un invito a rappresentare una nostra opera nel teatro tenda nel Museo della Memoria di Villa Grimaldi, trovammo l’occasione per un debutto dello spettacolo in quella significativa sede, importante e simbolica anche se molto decentrata.
Non ci raggiunsero molti spettatori ma, tra quelli intervenuti, venne lo scrittore e giornalista Marco Antonio de la Parra che recensì stupendamente lo spettacolo, sottolineando una cifra centrale della poetica di Assemblea Teatro, ovvero la capacità di trarre drammaturgia dalla storia recente e segnalando come nessuno in Cile lo avesse ancora fatto, nonostante ce ne fosse un’estrema necessità.
Che un intellettuale di quel peso desse un così positivo risalto al nostro lavoro mi diede il coraggio per contattare la Fondazione Pablo Neruda e proporre loro di poter presentare l’opera nelle case del Poeta. La risposta fu entusiasta e positiva e quelle repliche andarono esaurite e furono ricche di partecipazione intellettuale e popolare.
E proprio nella casa di ISLA NEGRA incontrammo Manuel Araya, che è stato l’autista di Neruda, e dai giorni del golpe, dopo aver vissuto in quella dimora oltre un anno con Pablo e Matilde, non vi era più entrato. Lì ha condiviso con i Neruda la perquisizione, e dopo aver accompagnato il Poeta nella clinica Santa Maria di Santiago, con un tranello fu arrestato e rinchiuso nella casa di tortura che era diventata lo stadio di Santiago.
Conservava un segreto nascosto, anche a sé stesso, e lo aveva dovuto fare come molti per poter sopravvivere alla dittatura che proprio lo spettacolo gli risvegliò. Quel segreto era una iniezione che non era prevista nelle terapie e che Neruda confessò a lui e a Matilde di aver subito in loro assenza.
Da quella prima confessione si è aperta una vicenda durata altri 14 lunghi anni, attraverso un primo articolo pubblicato da Gabriele Romagnoli, seguito da quello di un giornale messicano, capace di produrre il risveglio e la denuncia del Partito Comunista cileno, la successiva riesumazione del cadavere e tre commissioni scientifiche di indagine. In questi tempi eterni, ogni ipotesi è stata plausibile da “Manuel dice la verità” fino a “Manuel è un mitomane, come tanti in Sudamerica in cerca di visibilità”.
Io ho visto piangere Manuel lacrime vere mentre raccontava e mi sono sempre chiesto perché Matilde non abbia mai parlato e altresì non abbia mai voluto parlare di quei minuti con Manuel e perché Manuel ne ha parlato proprio con me.
Mi sono dato una risposta e voglio pensare che tutto sia stato un disegno di Pablo.
Neruda sapeva che lo avrebbero ammazzato. Una delle prime cose che disse dopo aver ricevuto la notizia del golpe fu: “Questi uccidono – mi ammazzeranno come hanno fatto con il mio amico García Lorca”. Neruda ha visto in faccia il suo assassino, il falso medico agente della Cia che gli ha iniettato il liquido mortale. Neruda, per salvare la sua dignità di combattente, e quella del Partito Comunista che lui rappresentava, ha chiesto a Matilde il silenzio. Ha preferito non si sapesse che i militari avessero la certezza dell’impunità nell’uccidere un Poeta Premio Nobel. La notizia, se diffusa, in quei giorni avrebbe esaltato ancora di più la loro forza e il loro potere.
Quando Matilde morì fu sepolta a fianco a lui, di fronte all’Oceano, proprio come nella loro camera da letto.
Erano passati più di trent’anni e una troupe di teatro venne a celebrare anche a Isla negra “IL FUNERALE DI NERUDA” e lo fece inconsciamente, proprio per tutti quegli abitanti che non avevano potuto partecipare a quello vero.
Tutti erano lì. Pescatori, con mogli e bambini, indossando il vestito buono della domenica. Piangevano. Quelle lacrime del suo popolo devono aver spinto Pablo a invitare Manuel, l’ultimo testimone. Questo lo dico perché ad invitarlo al secondo spettacolo fu proprio il figlio adottivo, quel bambino di strada che Pablo e Matilde avevano deciso di salvare dalla miseria e che, per volere testamentario, avrebbe dovuto lavorare a vita nella Casa museo. E così Manuel arrivò e dopo, di conseguenza, venne tutto il resto perché IL SANGUE HA DITA E SCAVA GALLERIE SOTTO LA TERRA.
(14 febbraio 2023)
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