Prima dell’esplosione della pandemia, ci ponevamo un problema, ovvero l’eccessivo consumo dei social e la dipendenza dal web.
Poi è scoppiata l’epidemia e il web ha aiutato molti a superare la solitudine e a garantire continuità in molte funzioni sociali che diversamente si sarebbero dovute interrompere (scuola, lavoro, eventi, ecc…).
Ora, però, pur riconoscendo il valore di questa grande utilità, non si può nascondere un certo fastidio per l’eccedenza di virtuale quotidianamente proposta. Tutto è virtuale o diviene virtuale.
Lo è la musica, la letteratura, il teatro, la scienza, anche la danza. Ogni proposta continua a perdere la fisicità aiutandoci ad evitare, è vero, l’infezione, ma facendoci correre seriamente il rischio di una perdita di senso alle cose.
Parto parlando di quello che so, ovvero di teatro. Il teatro è un corpo che attraversa lo spazio, un attore che si muove in scena e lo fa contemporaneamente alla presenza di uno spettatore, anche uno solo, come certe sere può avvenire. Ma, anche di fronte a uno, il teatro vive.
Se quell’uno non c’è, non è teatro. È video, televisione, cinema. Altre discipline bellissime, affascinanti, ma altro.
Non basta prendere il telefono e filmare un volto che legge, o una telecamera e filmare uno spettacolo per poi dire che questa sia una proposta di teatro. Il teatro è condivisione del qui e ora, di un’azione e di uno spazio. Se perdo questo senso, perdo l’occasione dell’emozione.
Ecco, l’emozione è quello che si è cancellato in questo tempo di solitudine. Non possiamo pensare di ottenerla o di viverla con un surrogato. La fotografia ci può dare emozione. Fissa un istante che ci colpisce, lo ingigantisce e lo perpetua.
Ci ha emozionato la foto dell’infermiera stremata piegata a dormire davanti al computer.
Quell’immagine comunicava la fatica che percepivamo accadere nei luoghi dove non volevamo essere.
Se il teatro vuole emozionarci deve farci vivere quel luogo e quella persona deve portarla d’innanzi a noi, dove posso credere che sto vivendo dentro a quell’immagine che si muove proprio per me. Non posso farlo sul web. Posso farlo in un film che ha una sua altra scrittura per parole e immagini, effetti speciali.
Anche un relatore si sente nudo nel parlare solo ad un microfono, anche lui ha bisogno di un ascolto, gli serve un pubblico così come al teatro serve il pubblico. Non si possono fare solo surrogati.
Come in tempo di guerra, ci stiamo assuefacendo all’orzo invece di continuare a desiderare un buon caffè.
Meglio sempre sicuramente il rapporto diretto con lo spettatore.
Fatto questo ragionamento generale sul valore del teatro, non vogliamo però demonizzare lo streaming e in generale il web.
La pandemia, e soprattutto il lockdown, ne hanno dimostrato la grande utilità. È venuto in soccorso delle scuole, della solitudine, della distanza e, perché no, della distrazione.
Due i ragionamenti che ci hanno indirizzato a provarci.
Il primo è che la televisione negli anni 60/70 ha prodotto buon teatro (si può vedere nelle Teche Rai) avendo capito però una necessità: non si doveva riprendere lo spettacolo così come avveniva sulla scena, ma ripensarlo per le telecamere con altri tempi. Bisognava riconoscere che era un altro occhio a guardare.
Il secondo motivo è che esiste un gran bacino di utenti che non solo usa questo mezzo, ma ci abita costantemente per cui il web è il suo vero habitat e non ci raggiungerà mai (in una sala) se non andiamo noi da lui.
Allora, per prima cosa, nel primo lungo lockdown in cui è saltato il debutto del nostro spettacolo “Le donne del Re”, abbiamo smontato lo spettacolo e ne abbiamo fatto delle riprese pensate per una installazione da realizzare su 4 diversi grandi schermi nello spazio del Mausoleo, dove lo spettacolo avrebbe dovuto debuttare.
Finito il primo lockdown, nella fase di apertura, in quello stesso spazio, abbiamo realizzato anche una grande mostra per Luis Sepúlveda, il nostro amico morto per Covid.
L’evento ha ottenuto un buon risultato di pubblico soprattutto quando erano previste letture dalle pagine dell’autore cileno.
Ma il secondo lockdown ci ha nuovamente impedito di concludere un ciclo.
In questo caso abbiamo pensato allo streaming per non spezzare il filo con gli spettatori. Questo ha inciso solo sulla scelta dei brani che sono stati scelti con una durata mai superiore ai 10 minuti, un tempo più facile per un ascolto su web, mentre dal vivo ci siamo permessi brani di oltre 30 minuti.
Il risultato è stato comunque molto soddisfacente e i contatti hanno superato le 10 mila unità.
Ora a Natale qualche cosa abbiamo realizzato come pensiero per allietare i più piccoli e non recidere l’impegno che ci lega alle famiglie e ai genitori.
Non sappiamo se il demonio ci ha piegati o se noi abbiamo condizionato il demonio.
Ma, convinti che non esiste demonio, abbiamo cercato di adattarci ad usare a nostro vantaggio lo strumento.
La scelta ci ha aperto campi di nuovo linguaggio e siamo convinti che questo, per un centro di ricerca, sia comunque un fattore positivo.
Renzo Sicco
(24 dicembre 2020)