Genova, 7 dicembre 2012
Ho visto a Genova uno spettacolo di cui vi voglio parlare.
“Dov’è mio padre?” questo grido colpisce come uno schiaffo. E’ finzione ma relativa.
E’ finzione perché accade sulla scena di un teatro, ma è finzione parziale giacché a dirla questa frase sono cinque dispersi, ragazzi di diversa provenienza, ugualmente figli di padri assenti o lontani. Afganistan, Senegal, Nigeria, Pakistan, India, sono le terre che hanno lasciato per intraprendere avventure titaniche per chi è poco più che adolescente. Sono storie come quella raccontata da Fabio Geda nel libro “Nel mare ci sono i coccodrilli”. Storie che loro non vogliono raccontare. Non possono dimenticarle ma tacerle almeno sì. Con Calipso, Circe e Penelope raccontano l’Odissea, la storia di un viaggio che è il loro viaggio. Hanno corpi atletici vigorosi ma quando vibrano, ondeggiano e cadono sul palco li vorresti abbracciare perché raccogli tutta la fragilità, la solitudine e il loro dolore dentro la tempesta.
Poche parole, nel loro italiano elementare e insufficiente. Molti cartelli, fogli con poche scritte colorate. Semplici parole simbolo, tracce dei percorsi del corpo e dell’anima. Molte le azioni, energetiche e ribelli, poi un rap, la lingua della loro generazione, che raccoglie la Babele che li ha generati e fatti incontrare. Ci voleva una donna innamorata del teatro e dell’umanità per trasformare la loro rabbia in rigore, la loro sofferenza in poesia.
Sono belli i loro sorrisi stupiti, mentre la platea li applaude.
E pensare che ci sono ancora molti che si chiedono se il teatro sia utile!!!
Renzo Sicco
Note di regia
L’Odissea dei Ragazzi. Una storia d’amore.
“Vivo in una giungla, dormo sulle spine”: l’ha detto Shahzeb, Pakistan, uno dei ragazzi di Odissea, quando ho chiesto a ciascuno di dirmi una frase in cui si riconoscesse. L’ha detta nella sua lingua, ovviamente. Erano da poco arrivati in Italia, dopo viaggi non raccontabili, minorenni, soli.
Nessuno di loro era mai entrato in un teatro prima.
“Vi piace?”
“Bello. A cosa serve?”
Alcuni sapevano leggere e scrivere. Nessuno aveva voglia di parlare di se’. Nessuno sapeva cosa fosse l’Odissea. Il problema non è stato tanto linguistico. Abbiamo trovato presto un codice di espressioni, gesti, emozioni per capirci, anche perché il materiale su cui abbiamo lavorato è umano, comune a tutti. Guerra, nostalgia, amore, sensualità, padre, madre, figli, violenza, gruppo, gioco, diventare grandi. Ognuno ha trovato nell’Odissea le storie della propria vita, identificandosi immediatamente ora in Ulisse, un viaggiatore abbastanza scaltro da salvarsi la pelle, e pieno di malinconia; ora in Telemaco, un ragazzo in mezzo ad una Storia più grande di lui.
Le poche frasi dello spettacolo derivano o dalla stessa Odissea o sono state dette dai ragazzi, durante i nostri incontri, in scena o fuori scena.
Ci siamo incontrati in modo discontinuo, senza sapere dove saremmo arrivati, tra un guaio di uno e la borsa lavoro dell’altro, l’esame di terza media e le partite di calcetto; tra la diffidenza iniziale, diciamolo, l’ostilità reciproca, gli scontri culturali e la gestione di un’autorevolezza che non è scontata per un gruppo di adolescenti maschi, specie se la regista e l’attrice sono due donne adulte occidentali.
Uno mi prende una sigaretta dal pacchetto, gli dico: “Ehi, sei minorenne. E comunque me la chiedi per favore” e lui “Le donne sono come sigarette” “Cosa!?! Voglio rispetto.” gli dico. Mi risponde, guardandomi dall’alto in basso: “Non capisco la tua lingua”
Ma poi sento dire: “Lascio cadere un fiore e tu non lo raccogli”. Forse è una citazione di una poesia colta o di una canzone pop. E anche: “Dio è vita” o “Voglio mia madre!”, urlato dal palco.
E le discussioni sul razzismo e sul maschilismo, mentre facevamo merenda sdraiati sul palco, raccontando delle donne al loro Paese e dei griot, delle bombe e del mare, del freddo di campagna e delle cittá, del meglio di Bollywood e della top ten afghana, se sia meglio il criquet o il foot ball.
Tutto questo è entrato nello spettacolo. Ma alla fine.
Il primo giorno qualcuno si è nascosto sotto il palco. Qualcuno ha dato pugni alle sedie. Qualcuno, a cui ho dato la mano, me l’ha stritolata, per sfida.
Facile parlare di integrazione. Cosa diversa è metterla in atto.
Il teatro è un atto politico nel senso alto del termine, un atto che rispecchia la polis e la mette in discussione. Non si possono più produrre spettacoli a caso, si tratta non solo del denaro, ma anche della civiltà di un Paese. Ogni volta ci deve essere un perché sociale e estetico al tempo stesso.
“A teatro potete essere folli e liberi come mai nella vostra vita. Ma all’interno di regole a cui non si transige. Questa è una palestra per il vostro corpo, la vostra intelligenza e le vostre emozioni.” Mi sono sentita una specie di Mister con la squadra. E Sara, instancabile, generosa, solare grande caposquadra.
Quando si improvvisa davvero, suonando le corde del proprio vissuto emotivo, il rischio è di perdere il controllo. Il teatro insegna a conoscere e gestire le proprie emozioni, anche quelle più violente o pericolose. Il teatro è un gioco di squadra. Ma non è un gioco, è un lavoro.
“Questo è il vostro primo contratto: siete in paga e dovete rispettare delle regole. La vostra forza, potenza e bellezza sarà il lavoro che offrirete al pubblico. ”
Sarà uno spettacolo pieno di errori, ibrido ed eccessivo, non finito e vivo, perché così siamo noi, un gruppo mal assortito, impossibile e sbagliato, caotico e umorale, esperto di troppe cose del mondo e sconsideratamente fiducioso in un futuro che non ispira alcuna speranza.
“Viviamo in una giungla. Vorrà dire che ci renderà più forti. Dormiamo sulle spine: così saremo svegli quando sorgerà l’Aurora dalle dita di rosa”
Grazie a Simona Binello, Fosca Pastorino, Fabio Amoretti, Walter Bielli, e tutti coloro che dalle Comunità Tangram e Samarcanda ci hanno sostenuto in questo progetto.
Grazie ai tutori, avvocati Pericu e Bet.
Grazie a Luca Mazzella per la consulenza musicale.
Grazie alla socia del Cargo Avvocato Valentina Traverso, tutore a titolo gratuito di molti ragazzi, che ha avuto l’idea di partire per questa Odissea.
Laura Sicignano
Prima Scena / Penelope, moglie di Ulisse, è sola nel palazzo di Itaca con il figlio Telemaco. Tesse la sua tela e cerca di istruire il ragazzo alla guerra.
Seconda Scena / Il palazzo del sovrano Ulisse, partito per un lungo viaggio, viene preso d’assalto dai Proci che vogliono sedere sul trono dell’assente, approfittando della giovane età di Telemaco. Si impadroniscono della tela di Penelope e umiliano il figlio di Ulisse.
Terza Scena / Telemaco resta solo con i suoi pensieri, non è in grado di fronteggiare i Proci e si rifugia nell’immaginazione. Immagina le avventure di suo padre, in cui si identifica.
Quarta Scena / Ulisse appare in viaggio con i suoi amati compagni. La nostalgia di casa e il dolore per aver perso molti amici durante le avventure tormentano l’equipaggio. Ma il lavoro di marinai e la solidarietà li consola e li unisce. Ulisse e suoi compagni navigano.
Quinta scena / Ulisse abbandona Calypso, la maga che lo ha salvato da un naufragio e che lo ama, perché il desiderio di tornare a casa è più forte.
Sesta Scena / Ulisse e i suoi compagni accecano il Ciclope Polifemo e fuggono irridendolo.
Settima Scena / Ulisse e i suoi compagni incontrano le Sirene.
Ottava Scena / Ulisse e i suoi compagni incontrano la maga Circe che trasforma gli uomini in animali.
Nona scena / Tra Scilla e Cariddi. La vicenda è raccontata attraverso un RAP, scritto con le parole dei ragazzi e le città da loro attraversate.
Decima Scena / Ulisse e i suoi compagni rimpiangono casa.
Undicesima Scena / Ulisse torna a casa e uccide tutti i Proci.
Dodicesima Scena / Ulisse cerca un contatto con Penelope e con suo figlio Telemaco e poi decide di ripartire da solo.
Finale / Telemaco e Penelope aiutati dagli abitanti della povera Itaca ricostruiscono la città devastata dalla guerra, intorno all’ulivo in cui era intagliato il letto nuziale della coppia reale.
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