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INTERNAZIONALE 2008
DIARIO DAL CILE

EL FUNERAL DE NERUDA
Santiago del Cile

Nella vita ci sono attimi di privilegio grandiosi, come poter scrivere queste righe nella tranquillità più assoluta, in totale solitudine nel giardino della casa di Neruda, sulla terrazza che sicuramente ha visto il Poeta riposare tra il fresco delle molte piante d’uva, tra le siepi e i fiori. Tutto è verdeggiante in questo caldo dicembre di primavera tra i muri bianchi o in pietra attraversati da scale e camminamenti in legno che uniscono i vari segmenti de La Chascona, la residenza di Santiago che ospitò il funerale del Poeta, quello stesso che siamo venuti a cantare e a ricordare in questi giorni in Cile.
Abbiamo iniziato quattro giorni fa a Villa Grimaldi con le prove sotto il telone bianco della grande tensostruttura che disegna il Teatro por la Paz. Abbiamo lavorato accolti dal calore fraterno della gente che gestisce il Museo della Memoria. Tutti volontari che in quel luogo hanno perso una sorella, un padre, un marito, una persona cara e che dedicano alla memoria una fetta consistente del loro tempo e del loro impegno. Lo fanno sorridendo perchè anche la memoria di giorni ed eventi terribili sia speranza. Tra una pausa e l'altra del nostro lavoro abbiamo percorso in gruppo o da soli i sentieri della Villa entrando nelle piccolissime celle di legno di un metro per un metro dove venivano rinchiusi cinque detenuti alla volta.
Abbiamo camminato nel roseto dove ogni fioritura porta un nome di donna giovane, vecchia, ricca o povera, scomparsa in questo inferno. Un rosaio ha una targa priva di iscrizione ed è dedicato a tutte le ignote che comunque scomparvero.
Il nostro lavoro si è caricato di emozione, di motivi, di affetto e attenzione, ora dopo ora, e così siamo approdati al momento del debutto carichi e tesi come la situazione richiedeva. Una prova ardua, per l’intensità del lavoro ma anche per l’uso di una lingua, lo spagnolo, che ormai ci appartiene ma certamente non è la nostra pelle. Eppure tutti l’hanno abitata e così bene che l’intensità dell’opera si è fatta lacrime tra i molti presenti, si è fatta voce per tutti quelli che quei giorni hanno vissuto e doverosamente dimenticato, per non correre maggiori rischi di quelli che la loro condizione già includeva, nei lunghi anni della dittatura. Si è fatta canto per gli scomparsi tanto che alla fine l’applauso è stato abbraccio forte e stordente.
Poi la replica e lo stesso intenso calore. Stasera invece siamo nel luogo che raccolse le ore ed i giorni che raccontiamo. Davvero strano per il teatro incontrare la realtà. Ci era accaduto con “Più di mille giovedì” in Plaza de Mayo con le Madres. Ci riaccade ora a La Chascona e ci attende il fine settimana sull’oceano di Isla Negra, nella casa che per prima abbiamo visitato dieci anni fa, non immaginando minimamente che l’allegria del viaggio di cui il Poeta ci era maestro, ci avrebbe portato a raccogliere la sua bandiera per riviverne, proprio accanto alla sua tomba, i momenti della veglia.
El funeral de Neruda, il nostro spettacolo, parla di tragedia ma anche di speranza e inevitabilmente di allegria della vita, di una doppia morte, quella del Poeta e quella di un intero paese ma ne parla al fianco della sua rinascita giacché proprio il funerale in ore impossibili diede vita alla prima manifestazione di massa e di resistenza contro il regime.

Lo spettacolo a La Chascona è stato un successo emozionante per la presenza di molti amici e tra essi lo squisito direttore della Fundacion Pablo Neruda, Fernando Saez Garcia, persona che da subito ha apprezzato il nostro progetto al quale ha conferito prestigio e autorevolezza. Gli dovevamo una notte straordinaria e lo spettacolo ha saputo mantenere questa promessa.


Mentre gli attori recitavano dinanzi alla casa, lo sguardo raggiungeva il salone dove 35 anni fa si tenne la veglia funebre. Tutto ciò ha prodotto un brivido lungo un’ora e mezza che ha attraversato e coinvolto tutti i partecipanti a questa notte davvero speciale dentro ad una Santiago silenziosa per il lungo ponte dell’Immacolata.
Nelle prime file dell’Anfiteatro che conduce all’ingresso del Museo erano seduti Jorge Arrate, ex ministro del lavoro del Governo Allende e futuro candidato alla Presidenza del Cile e Hernan Loyola che fu testimone della veglia di Neruda. Commosso, alla fine mi ha abbracciato dicendomi “ho riconosciuto le mie parole”. Gli ho confessato che ero felice della sua emozione ma che non sapevo che quelle parole fossero sue.
Le ho raccolte, come altre, dentro ai molti documenti trovati nella mia ricerca. Gli ho detto che mi erano sembrate forti, intense, vere e che per questo le avevo scelte nella certezza che valesse la pena inserirle.


Le parole dormono nelle biblioteche e i visitatori vengono a risvegliarle. Siamo visitatori venuti da lontano per risvegliare le parole di Neruda. Parole amate e amate e amate ancora. Contro ogni scalfittura del tempo. Amate da tutti i cileni! Le abbiamo poste vicino a parole scomode come quelle di una memoria ancora troppo recente per non risultare in qualche modo dolorosa. Anche in questo luogo, la Biblioteca Nacional, le lacrime scorrono a fiumi e il giovane direttore riceve dai molti spettatori complimenti calorosi per “aver ospitato questo lavoro nel suo programma”.


Un bell’articolo con foto parla del nostro lavoro in Cile su El Mercurio, uno dei quotidiani più letti in Cile.
Condividiamo la pagina di cultura e spettacolo con Madonna che proprio oggi approda allo Stadio Nacional di Santiago quello stesso che abbiamo conosciuto come la grande prigione instaurata nei giorni del terrore del settembre 1973.
La replica del nostro spettacolo alla Biblioteca Nacional è prevista alle 19.00 così alle 21.00 siamo liberi. Il concerto è annunciato alle 21.30. Alcuni amici ci trovano dei biglietti tra i 150.000 andati a ruba per le due serate. Alle 21.45 siamo nella chanca, il grande prato dello stadio di fronte all’immenso e tecnologico palco della star nordamericana, avvolto da due grandi M brillanti illuminate dalle luci fucsia. Gli spalti sono pieni di giovani eccitati dall’attesa. Entrare qui tra camion e furgonette dei carabineros nelle loro divise verde militare per nulla cambiate rispetto al passato, è sensazione davvero cupa.
Il concerto, o meglio lo spettacolo di Madonna, scorre via mantenendo le sue promesse. Grande carisma per poca voce, grande show per poca musica, ottima confezione.
Un prodotto perfetto quanto plastificato. Ma sugli spalti, nelle tribune, sul prato è gioia generale, sono canti e balli. Molti, tra quelli non venuti qui stasera, sono stati critici contro l’ennesima intrusione pseudoculturale nordamericana. Ma esser qui a cogliere questa allegria è consolatorio. Sarà business e poco rock’n roll, ma sinceramente meglio non essere snob e poter vivere anche questo stadio come un qualsiasi stadio del mondo. Molto meglio così che ricordarlo come la più grande prigione all’aria aperta che diede inizio ad un periodo di paura, che ha inondato questo paese di sangue. Stasera almeno in mezzo a tutte le possibili contraddizioni ci sono anche tutte le possibili speranze ed è bello allora cogliere i sorrisi, i volti sudati ma felici di giovani che non cresceranno nell’ombra del terrore.

Un metro forse due mi separano dal luogo dove morì Salvador Allende. E’ una fibrillazione vera e propria stare in piedi in questa stanza dopo aver visto lo scrittoio, la grande sedia e il telefono del Presidente. Gli oggetti e l’habitat degli ultimi istanti tra gli ultimi pensieri mentre i tetti in legno della Moneda bruciavano e l’impari disequilibrio delle forze virava la storia verso la violenta dittatura dei militari. L’uomo che incarnava la storia democratica di un Paese sceglieva senza esitazione la dignità. Per il proprio popolo si sedeva su questo divano francese color porpora e con la piccola mitragliatrice, regalo di Fidel Castro, si toglieva la vita.
L’11 settembre 1973, in poche ore, un susseguirsi di notizie e immagini sconvolsero l’immaginazione e le certezze di molti. Enrico Berlinguer ne arrivò ad elaborare il compromesso storico, ovvero l’impossibilità per le sinistre di arrivare al potere da sole anche se con maggioranza democratica. Quel suicidio rimane un teorema, un punto limite di non ritorno della storia. Poi il nostro presente ci illustra molto bene il susseguirsi di terremoti e frane nel pensiero e negli assetti di quella che fu la sinistra mondiale. Essere qui in piedi nel luogo dove l’accelerazione dei secondi, fu come quando il vento improvviso sbatte implacabilmente una finestra spezzandone i vetri, è commozione profonda.
Ma è anche verifica implacabile che la dignità resiste al tempo. Non procura, forse, beneficio immediato semmai a volte, come per Allende, è un prezzo finale ma resta indelebile ed offre per lo meno consolazione.
Chi, attraverso il terrore e la forza ne confezionò la sconfitta è stato già dimenticato anche da quella destra che lo onorò in vita. E’ dimenticato non per la lordura di sangue con cui si imbrattò le mani torturando e ammazzando i cileni ma per quegli interessi indebiti e insospettati che post mortem sono venuti in luce. Ingordigia del potere, di un potere che precedeva nel tempo la logica di beneficio corrotto che ha devastato dittature e democrazie tra virgolette, ingordigia che troppo spesso rappresenta lo squallore dentro al quale ci stiamo abituando a vivere. Ben altra la dignità dei sogni che uomini come Allende e Neruda volevano offrirci.


Tornare a dieci anni da “Fuochi” nel Teatro dell’Università è una grande emozione. Proprio in questa sala terminava nel 1998 il nostro primo tour in latinoamerica. Il clima è rimasto uguale: studentesco, disordinato e brioso nei corridoi e nelle aule quanto fortemente professionale nella grande sala che ci ospita. Una piccola equipe di tecnici, che si ricorda di noi e del nostro precedente passaggio, ci accoglie con calore e grande disponibilità.
In poche ore lo spettacolo è allestito, le prove scorrono altrettanto veloci e quando il pubblico riempie la sala, sono pronto a ringraziare i molti amici cileni che in questi anni hanno arricchito il nostro percorso. Per primo Neruda, senza il quale questo spettacolo non sarebbe stato possibile. Poi Luis Sepúlveda, più che amico, ormai fratello, con cui condividiamo il piacere di narrare quest’America latina. Poi la piccola ed indispensabile Veronica Navarro, docente dell’Università, con la quale per prima ho parlato ed iniziato a costruire questo progetto. E ancora Macarena Paz Pizarro, una cantante cilena che ho conosciuto giovanissima, nascosta nel deserto di San Pedro de Atacama. Fuggiva da Santiago ma anche in quell’arsura la sua voce potente era già una rosa pronta a sbocciare. La invitai in Italia e le cambiai la vita. Il mondo è pieno di cileni e lei, oltre al lavoro con Assemblea Teatro, trovò il suo amore e restò ad Amsterdam, in Europa.
Poi per questo progetto un’altra telefonata ed eccoci in Cile assieme.
Altro ringraziamento necessario quello a Rodrigo Claro, il nostro costumista, scenografo, organizzatore a Santiago. Suo l’indispensabile aiuto nella realizzazione del testo in spagnolo. Lui è la chiusura del cerchio.
Lo abbiamo conosciuto proprio qui nell’Università nel 1999, in occasione della presentazione di “L’ultima notte di Giordano Bruno”. Aveva pianto, era emozionato, disse a me e a Giovanni. “Parlo poco l’italiano, non so se ho potuto capire proprio tutto del testo, ma mi ha molto emozionato perché mi ha ricordato un nostro martire Victor Jara.” In questi dieci anni si è laureato, ci siamo rivisti varie volte, non ci siamo mai persi e abbiamo sognato questo lavoro insieme. Ha imparato meglio l’italiano e ci ha aiutato in un lavoro che parla di Pablo, di Victor e di tanti martiri ignoti di questo paese.


Ritrovare l’abbraccio di quest’oceano e di questa casa, dell’architettura poetica di Neruda dopo questi grandi giorni di emozione in Cile, è consolazione profonda.
Viaggiare e trovare, viaggiare e ritrovarsi.
Ci siamo stati dieci anni fa. Era l’ultimo giorno del nostro primo tour latinoamericano.
Un giorno di vacanza che ci eravamo concessi e meritati dopo quattordici spettacoli tra Argentina, Uruguay e Cile.
Ci innamorammo del luogo e sognammo con il poeta. Ci colpì la frase incisa a fuoco sul legno che sovrasta la porta di ingresso “Ho viaggiato costruendo l’allegria”.
Ci parve un’indicazione al nostro viaggiare. Da allora è diventata un po’ manifesto e motivo del nostro girovagare tra le culture del mondo.
Mai però allora avremmo pensato di poter esser qui, dieci anni esatti dopo, a cantare e rappresentare proprio Neruda in questa casa.
Mai avremmo pensato di farlo di fronte ad Enrique Segura Salazar, il figlio adottivo di Pablo, quello che lui chiamava “mi pequeño astronauta”, il mio piccolo astronauta. Un piccolo principe trovato ad Isla Negra.
Mai avremmo pensato di presentare lo spettacolo di fronte a Manuel Araya Osorio, il giovane autista di Neruda, sequestrato con un sotterfugio e portato nello stadio nazionale dove fu violentemente maltrattato.
Mai avremmo pensato di farlo davanti a questo popolo di un borgo che non ha scordato il poeta e che piange fitte lacrime come se il funerale si celebrasse adesso. Emozione ed emozione pura la nostra.
Tutti sorpresi dalla somiglianza di Giovanni e Gisella con Pablo e Matilde, che rende tutto ancora più vicino al vero.
La sala strabocca di gente e silenzio. Solo alla fine si abbandona e libera un applauso che abbraccia noi, la tomba di Pablo e Matilde e l’oceano intero, mentre la notte scende e un cane che, come dice il suo proprietario, “ha il complesso di essere un gatto”, ci saluta dal tetto di una casa di fronte all’osteria, dove il giovane direttore della Casa Museo di Isla Negra offre a tutti noi la cena di congedo di uno dei tour che possiamo classificare tra i più intensi che abbiamo vissuto.
Anche dopo anni per noi il teatro è ancora terra di sorprese, di sogni e speranze. Alcune si realizzano quando continui a sognare fino ad unire ciò che sogni col reale, per poi scoprire che la realtà poco tempo fa era stata un sogno.
Alziamo i calici colorati, come piaceva a Neruda, a contenere un buon vino rosso cileno.

dicembre 2008
Renzo Sicco


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