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tratto da www.pagina21.eu, che ringraziamo
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Gian Paolo Ormezzano e l’arte del raccontare
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GPO era nato a Torino il 17 settembre 1935 ed è morto nel capoluogo piemontese il giorno di Santo Stefano. Scrittore, giornalista, è stato direttore responsabile di Tuttosport, editorialista del Guerin Sportivo e della Stampa. Tifoso del Torino
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di Darwin Pastorin, 28 dicembre 2024
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Gian Paolo Ormezzano era l’ironia, l’arguzia, il riso, l’aneddoto sorprendente, l’abbraccio generoso, la parola giusta, l’aggettivo perfetto. È stato il mio primo direttore a Tuttosport nel 1974.
Avevo appena superato l’esame di maturità. Mi presentai in via Villar e le porte, come per incantamento, si spalancarono. Dopo alcuni giorni di apprendistato, GPO (Gian Paolo Ormezzano) mi chiese di scrivere un articolo per la Terza Pagina, scritto proprio così, del quotidiano torinese. Io raccontai la storia di Vincenzo Marino, centravanti del Brindisi in Serie B.
Le nostre famiglie diventarono amiche in Brasile: meravigliose vicende di emigrazione. Ormezzano mi disse: «La pubblico».
Il giorno dopo, per la felicità e l’emozione, acquistai in venti edicole altrettante copie del giornale.
Ecco: Gian Paolo sapeva apprezzare, come Giovanni Arpino, i giovani apprendisti cronisti. Gli ho voluto bene e, per sempre, resterà nel mio cuore. E nel figlio Timothy ha trovato il suo degnissimo erede. Tanto sono i ricordi, le emozioni e le nostalgie. Era un mago dei titoli, non solo della scrittura. Quando Michele Dancelli conquistò, dopo anni di dominio straniero, la Milano-Sanremo fece suonare le campane in prima pagina: «Din Don Dancelli!».
Tifava per il Toro, in maniera sincera folle e assurda, ma coltivava una profonda amicizia e stima con Boniperti. Scriveva di tutto con un talento inavvicinabile: nuoto, sport praticato e amato, ciclismo, atletica. Era un appassionato di teatro e la sua collaborazione con Assemblea Teatro di Renzo Sicco, la sua Marlene, spesso, impegnata con la sua classe di attrice, ha prodotto testi straordinari.
Era impossibile non volergli bene, ascoltare per ore, senza mai annoiarsi, le sue memorie, che coinvolgevano non soltanto i campioni dello sport, ma scrittori famosi e tifosi del vecchio e caro Filadelfia, filosofi hegeliani e amici d’infanzia, l’adorazione per la Francia, come per Gianni Mura, e le vicende del proprio quartiere.
Scriveva a con velocità sorprendente ed era sempre buona la prima stesura.
Ha deliziato lettori di Tuttosport, Famiglia Cristiana, La Stampa e Corriere della Sera, soprattutto l’edizione di Torino. Era il nostro Borges, con i suoi labirinti e i suoi universi paralleli. Soprattutto è stato un maestro che non ha mai smesso, senza presunzione e arroganza, d’insegnarci che scrivere era come fare l’amore.
Noi, GPO, ti abbiamo amato.
Non smetteremo mai di farlo. Grazie di tutto. Soprattutto per quegli abbracci nei nostri momenti di malinconia. Per quel tuo sorriso che era il nostro sole e la nostra consolazione.
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di seguito un articolo di Gian Paolo Ormezzano, tratto da web.peacelink.it, che ringraziamo
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Un padre, famoso giornalista, racconta l’incubo del figlio
Raccolto all’uscita del carcere di Pavia, dopo essere stato arrestato e pestato a sangue dai Carabinieri per aver cercato di filmare i cortei di Genova
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di Gian Paolo Ormezzano, 24 luglio 2001, ore 10
Gli avevo chiesto di farmi vedere tutte le ferite coperte dagli abiti, mi ha detto di no, dovevo “accontentarmi” dello scempio visibilissimo sul viso, otto punti al sopracciglio, un occhio circondato dal viola dell’ecchimosi e invaso dal sangue, il labbro rotto, e della visione della schiena, piagata dalle manganellate e dai colpi calati col calcio del fucile. Oh, si vedevano anche i segni delle manette che gli erano state strette troppo fortemente ai polsi, ma dire manette è un errore, il termine tecnico è un altro che lui sa e io no, sono specie di ceppi che segnano la carne. I pantaloni scendevano perché la cintura non c’era più, era stata sfilata di brutto all’ingresso in cella, rompendo tutti i passanti, e si vedeva qualcosa delle mutande piene di sangue. Però lui non ci ha lasciato vedere tutto, non voleva farci del male con quello “spettacolo”.
Erano le 19 di lunedì. Settantacinque ore prima mio figlio, che ha 26 anni ed è creatura gentile, tenera, prudente sino ad essere paurosetta, massima esplosione di esuberanza fisica il tifo urlato e cantato per il suo e mio Toro, aveva compiuto il grave errore di partire con amici da una località di mare in provincia di Savona per andare a Genova e filmare – lui che studia anche giornalismo televisivo a Torino e mette insieme documentari assortiti – qualcosa del Genoa Social Forum, della contestazione contro il G8. Filmare e basta, cercando immagini di protesta corale e coreografica, filmare accanto a un gruppo di vecchie signore che vendevano magliette-ricordo.
Una carica dura delle forze dell’ordine, è la zona dove è stato appena ucciso quel ragazzo, le signore alzano le mani, i suoi amici scappano, lui non può perché cercando di allontanarsi si inciampa, cade, resta in ginocchio, a mani alzate. Gli piombano addosso, quelli delle forze dell’ordine, e gli spaccano la telecamera e la faccia, gli tatuano la schiena, gli martoriano tutto il corpo. Tanti vedono, nessuno può intervenire. Se lo disputano come ricettacolo di colpi poliziotti e carabinieri: ad un certo punto lui si trova con una mano nella manetta di un agente, l’altra nella manetta di un carabiniere. Implora una scelta, mica possono squartarlo.
Se lo aggiudicano i carabinieri, che lo portano via, gli dicono che un loro commilitone è stato ucciso, in una caserma, questo sarà lo spunto per altri pestaggi, stavolta specialmente con calci. C’è anche il passaggio in un ospedale per una medicazione, fra medici sbalorditi, indignati. Poi – ormai è notte – via su un torpedone verso il carcere di Pavia, la cella di isolamento: la richiesta di poter orinare prima del viaggio viene respinta con un pugno sul viso ferito e invito al fachirismo o al farsela addosso, comunque unica violenza fisica da parte della polizia penitenziaria. Poi la prigione, senza ora d’aria, con poco cibo e l’acqua calda del rubinetto. Passa tutto il sabato, passa tutta la domenica. Tocca agli infermieri del carcere inorridire per le ferite da medicare. Al lunedì mattina la decisione del magistrato, sollecitato da un bravo avvocato che sa smontare le accuse inventate sul verbale in fotocopia, come quella di detenere uno scudo in plastica, vistoso e imbarazzante, ancorché strumento di difesa, non di offesa, ma inesistente, inventato. Fra la decisione del magistrato e la scarcerazione passano sei ore per le cosiddette pratiche burocratiche. Sei ore di vita libera tolte ad un ragazzo pienamente scagionato. Sei ore di attesa per noi nel forno davanti al carcere. È uscito senza la telecamera ed uno zainetto, spariti. Gli hanno ridato il telefonino, lo aveva in tasca, è stato distrutto dalle manganellate.
Ho saputo venerdì nella notte, da una telefonata dei carabinieri, che era in arresto e “stava benissimo”. Non mi hanno detto altro. Mi sono precipitato a Genova, comunque. Era l’alba di sabato, telefonando ai carabinieri ho saputo che ero stato stupido a mettermi in viaggio, chissà dove era mio figlio. Mi hanno detto comunque di un avvocato di ufficio, nome e cognome: ma al telefono c’era soltanto una voce meccanica. Ho trovato aiuti da giornalisti amici, ho trovato un bravo avvocato, la procura di Genova era aperta e collaborativa, ho saputo del trasferimento a Pavia. Ho goduto della posizione di giornalista per rintracciare qualche informazione, molta solidarietà. Ed anche per essere allenato a come avrei visto mio figlio: colleghi esperti mi hanno detto, sì, di prepararmi a vederlo conciato male. Ma nonostante tutto da venerdì notte alla fine della giornata di lunedì ho vissuto una situazione da “Missing”, il film americano sulla tragedia del Cile ma anche sull’angoscia che ti prende quando sai poco o nulla di una persona cara portata via, nella mia angosciata particolare esperienza di immaginarti il figlio con le sue ferite, per anestetizzarti all’impatto (non servirà a nulla, sarà comunque una cosa tremenda).
Un bravo magistrato ha interrogato, eseguito riscontri, ascoltato testimonianze, e non ha creduto alle accuse a mio figlio elencate in un verbale che pareva proprio prestampato, eguale per tanti, ha creduto al racconto dolente ed angosciato di un ragazzo nonostante tutto più stupito che indignato, più sereno che dolente. Nella giornata passata fuori dal carcere di Pavia ho parlato con tantissimi parenti e amici di altri di quei provvisori desaparecidos. Ho visto uscire dal carcere altri ragazzi coperti di ferite. Ho potuto anche pensare che a mio figlio è andata bene, non è stato colpito alla pancia, ha avuto un avvocato solerte, ha trovato i suoi genitori fuori dal carcere ad aspettarlo, nei limiti del possibile confortarlo. Una parlamentare che ha visitato il carcere ha parlato, a noi in attesa, di ragazzi feriti, distrutti, piangenti, brutalizzati direttamente dai colpi presi, indirettamente dalla situazione kafkiana dell’isolamento. Lui mi ha detto che le visite di parlamentari e consiglieri regionali sono state un balsamo, comunque, per quel poter parlare serenamente di qualcosa con qualcuno, senza prendere colpi e ricevere insulti (una bella – cioè orribile – antologia, quella delle aggressioni verbali in pratica continue, l’ha messa per iscritto quando in carcere ha avuto una penna e qualche foglio, c’è davvero tutto per umiliare uno che patisce anche le parole).
Ho provato a chiedermi, da democratico assoluto, disperato, se proprio non è possibile ad un cittadino filmare della sua Italia, oltre che i monumenti e i tramonti e le feste di famiglia, anche una manifestazione di protesta senza dover essere brutalizzato, ridotto ad un manichino sanguinolento, sfregiato sul viso per sempre, da forze dell’ordine violente con i deboli e impotenti di fronte ai veri violenti, visibilissimi, colpibilissimi, le tute nere, nella fattispecie di Genova.
Cercherò di saperlo per vie legali, confido nella legge. Mio figlio mi ha detto – spero perché ferito ed umiliato, non perché definitivamente portato ad una scelta – che rinuncia agli ideali. Ma non ci credo. E comunque ha rifornito di ideali me.
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Contenuti e contorni perfetti, nessuna sbavatura. Viva GP0 e ARP, sempre.