“Al Mausoleo della Bela Rosin Torino per i 150 anni delle Biblioteche Civiche Torinesi ho raccontato alcune cose, affiancato nel metterle in scena e integrarle con brani de “La storia” di Elsa Morante da Stefano Cavanna e ASSEMBLEA TEATRO.”
E’ accaduto il 29 novembre 2019. Alberto Schiavone ci ha regalato pagine scritte per l’occasione, che volentieri pubblichiamo, ringraziandolo, insieme ai brani di Elsa Morante scelti per l’occasione.
“Me ne frego è il nostro motto/me ne frego di morire/me ne frego di Togliatti e del sol dell’avvenire/se il sol dell’avvenire è rosso di colore/me ne frego di morire sventolando il tricolore/Ce ne freghiamo della galera/camicia nera trionferà/se non trionfa sarà rivolta etc”.
Ho canticchiato questa filastrocca per parecchio tempo. Anni. Quelli dolci e un poco bastardi dell’adolescenza. La mia non è stata bella, di adolescenza. Nemmeno troppo difficile.
È stata noiosa.
Forse è lì che mi sono ammalato di solitudine.
Quella canzoncina è sopravvissuta nella mia memoria, salvandosi dal mio cambiamento e dalla mia età. Dai miei dubbi e dalle mie certezze.
È rimasta lì, equiparata ormai a una brutta canzone da classifica che sono stato obbligato ad ascoltare (e, porco mondo, imparare). Posso cantare a memoria canzoni pessime e dover rileggere poesie sublimi.
Eros Ramazzotti ha provato ad occupare più spazio di Giovanni Raboni.
Quella filastrocca invece è restata lì nel suo spazio delle cose imparate da ragazzo.
Devo aprire una parentesi, non sarà l’ultima, pur essendo la prima: della mia infanzia e della mia adolescenza ho rimosso quasi tutto. Ho delle immagini forti che mi sbattono addosso spesso, provocandomi indicibile tenerezza e ancora più forte vergogna.
Il resto è nebbia rovinata.
LETTURA
[A casa, la sera, nella luce da cappelletta delle lampadine oscurate, il fascista Ninnarieddu cantava, con la sua voce scordata di tenorino:
“Colonnello non voglio pane/voglio piombo per il moschetto”
Ma ogni tanto variava:
“Colonnello non voglio pane/voglio Moka con la bistecca”
A gran voce, a finestre aperte, apposta per fare il bravo e lo strafottente che sfida le spie della questura.
[…]
«’A mà! Chi è?»
«È… è uno… trovato nella strada.»
«Però adesso ce lo teniamo? Ce lo teniamo qua con noi?»
«Sì…»
«E come si chiama?»
«Giuseppe.»
[…]
«E adesso per festeggiare Giuseppe me lo paghi un pacchetto di nazionali?»
[…]
«Eh Nino… che credi, oggi? Che io sia diventata milionaria? Tu vuoi il nostro fallimento completo! […]»
[…]
«[…] Annamo, Mà, nun cominciamo con la solita lagna, che nun t’aruvini pe’ cinque liracce stronze. Avanti, scucile, ‘a mà, te decidi? Che stai diventando peggio de na giudia.»
Quest’ultima per Nino era una comune battuta di gergo, nessun significato reale. Dei Giudei difatti, e della loro attuale vicenda, Ninnuzzu non si interessava per nulla, fin quasi a ignorarli, in pratica, più o meno come se si trattasse dei Cimbri o dei Fenici. Per cui l’inevitabile, piccolo tremito di Ida trapassò invisibile ai suoi occhi. Ma Ida, tuttavia, per darsi uno sfogo, lo investì su un altro argomento (ormai rancido, invero) delle loro baruffe familiari:
«Ah, quante volte ti ho detto che mi fa senso sentirti parlare con questo dialetto basso, e queste parolacce da trivio! Chi lo direbbe, a sentirti parlare peggio di un somaro, che tu… tu invece… sei figlio di una insegnante, e frequenti gli studi classici superiori! Non sei mica uno zotico senza istruzione! L’italiano bello l’hai studiato…»
«Signora Madama, vi porgo il presente invito: datemi uno scudo.»
«Sei un malvivente… Non ti posso vedere! Per me, quando ti vedo, è come mi venisse il fumo dentro agli occhi!»
Nino, fremendo d’impazienza, si era messo a cantare deutschland deutschland:
«Insomma, damme li sordi.»
«Soldi… tu non pensi a nient’altro! Sempre soldi!»
«E senza soldi, che festa è? […] Li sordi, ‘a mà!»
Concluse, peggio di un brigante, affrontando sua madre.
«Tu finirai ladro e omicida!»
«Io finirò a capo delle Brigate Nere. Io, appena ho l’età, me ne vado a combattere PER LA PATRIA E PER IL DUCE!»
All’eccesso di sfida con cui pronunciò queste maiuscole, la sua voce lasciava trapelare un’intenzione blasfema. S’intuiva che, dinanzi alla sua pretesa di ragazzino, le Patrie e i Duci e l’intero teatro del mondo, si riduceva tutto a una commedia, la quale aveva valore soltanto perché si prestava alla sua smania di esistere.
[…]
Lo si trovava effettivamente di picchetto o in perlustrazione per le vie della città, col suo gruppo di camerati in divisa. […] Fu proprio in una di tali occasioni che il moschettiere Ninnarieddu concepì e mise in atto una sua personale impresa storica. La quale, obbligatoriamente, all’epoca fu da lui tenuta occulta […]
Sembra che, durante una serie di notti, alla sua squadra fosse toccata di guardia la zona intorno al Vittoriano, proprio sui limiti di Palazzo Venezia […] . Tutto era nero, nella notte, per quelle strade. Il buio nero formicolava di poliziotti neri, e Ninnarieddu stesso aveva la camicia nera, i calzoni neri, il berretto nero, ecc. Ora, una di quelle notti, chi lo sa in che modo, Nino riuscì a sviarsi da solo dietro quei palazzi storici, come un masnadiero che scorazza al centro del mondo: portando, nascosto addosso, un barattolo di vernice nera con un pennello! E, di soppiatto, in fretta e furia, tracciò a grandi lettere sul muro la seguente scritta:
VIVA STALIN
Non perché gli fosse simpatico Stalin: il quale, anzi, a quell’epoca gli pareva il nemico principale. Ma così, per strafottenza. Ci si sarebbe divertito lo stesso a scrivere VIVA HITLER sulle mura del Cremlino.[…]
La sera stessa annunciò a Ida che lui, ormai, sapeva tutto lo scibile, e smetteva la scuola. Tanto, presto avrebbe dovuto smetterla lo stesso per fare la guerra. Finita la guerra, poi, se ne sarebbe riparlato.[…]
Allora lui, esasperato, si diede a cantare come un coro immenso, per non più sentirla, gli inni fascisti; improvvisandoci sopra, per far peggio, delle varianti oscene […] Attaccava addirittura Bandiera Rossa.
«Basta… vattene pure… alla guerra… dove vuoi.»
Vestito da armato, invero, faceva la figura di un ragazzetto, ma la sua espressione era superba, anzi proterva; e già mostrava qualche insofferenza della disciplina militare.]
La vergogna, eccola qua:
Io che maltratto un barbone dentro un pronto soccorso, perché si è seduto vicino a mia madre. L’infermiera che accorre e mi dice di lasciarlo stare. Ricordo benissimo la sua faccia (dell’infermiera). Il barbone no, era oggetto mio e oggetto suo. Necessitava caldo, e sicurezza. Io ero una minaccia nemmeno delle peggiori della sua vita. L’infermiera provava banalmente a tutelare la sventura.
Vergogna.
Io che insieme ad altri dieci individui in motorino planiamo silenti e scellerati verso un campo di rom (zingari, zingari, ci mancherebbe) e gli lanciamo sassi. Tanti, centinaia, che tenevamo dentro delle buste (della Standa, quella che avevo portato io).
Vergogna.
Io e altri due compagni di una squadra di calcio che mettiamo in un angolo un ragazzo nero, calciatore fortissimo, e con un coltellino gli sfioriamo la pelle ridendo e facendogli capire che lui per noi è un panetto di hashish, da cui stiamo tirando fuori delle canne da fumarci. Una stortura che lui subisce, di cui addirittura ride sovente.
Vergogna per un compagno di scuola che avevo deciso di prendere di mira. Uno sfigato, lui, io invece mi sentivo superuomo. Gli avevo promesso botte. Ne presi da un suo compagno di classe che aveva più grinta di me: stava infatti difendendo qualcosa di vero. Di importante. Io recitavo una parte ridicola e di maniera cui volevo appartenere. Non sapevo come, e in fondo, lo capisco adesso, non me ne fregava nulla.
Ma citando Jonathan Safran Foer, che cita sua nonna, che cita i suoi avi: “Se niente importa, allora tutto è davvero perduto”.
Io stavo perdendo la mia adolescenza dietro al nulla del non me ne frega niente. Lo avrei pagato anni dopo. Lo pago adesso.
Morirò con delle vergogne non sanate.
LETTURA
[Subito, appena entrato, quasi cadendo sui ginocchi, si buttò a sedere per terra, addosso a un sacchetto di sabbia. Chiaramente era allo stremo delle forze e non era armato. L’intera tribù dei Mille […] gli si era affollata intorno […] Anche Useppe era sbucato fuori dalla sua tenda […] e seguiva la vicenda con interesse estremo, mentre Ida si affacciava guardinga, sempre paurosa che in ogni venuto si nascondesse una spia fascista. […]
L’uomo, però, non faceva caso a tali accoglienze […]. Anzi, pur nel chiedere ospitalità, dichiarava palesemente, col proprio contegno, un totale rifiuto dei luoghi e dei loro abitanti.
[…] Quella sacca di tela, a tracolla, della misura di circa una cartella da scolaro, era l’unico suo bagaglio. La sua faccia, stravolta sotto la barba non fatta da parecchi giorni, era di un pallore grigio. […] Aveva capelli nerissimi, duri, tagliati corti sulla fronte […]. Indossava un paio di pantaloni estivi e una maglietta sbottonata dalle maniche corte: tutto in uno stato di sporcizia indescrivibile. E il sudore gli scendeva a ruscelli, come dopo un bagno turco. Dimostrava circa vent’anni. […]
Lo sconosciuto, non appena si lasciò cadere sul saccone, piombò subito in un sonno che assomigliava a una perdita di conoscenza.
Aveva lasciato la sua sacca in terra, là dove s’era seduto entrando e una cognata di Carulì, avanti di deporgliela vicino al capezzale, ne esplorò il contenuto. C’erano i seguenti oggetti:
Tre libri, uno di poesie spagnole, un altro dal difficile titolo filosofico e il terzo intitolato I simboli paleocristiani nelle catacombe;
un quadernetto bisunto di carta a quadretti che, in ogni sua pagnia, per dritto e per traverso e in tutte le direzioni, portava scritte a matita e in caratteri più o meno grandi, ma tutti della stessa mano, sempre e nient’altro che queste due parole ripetute: CARLO CARLO CARLO CARLO VIVALDI VIVALDI VIVALDI VIVALDI;
qualche biscotto stantio […]
alcuni biglietti da dieci lire […]
e una carta d’identità personale.
Questo era tutto. […]
Nella fotografia, scattata alcune stagioni prima, il giovane che presentemente dormiva sul saccone era tuttora riconoscibile, sebbene adesso, al confronto, apparisse sfigurato. […] Il cambiamento più sconcio era nell’espressione che, sul ritratto, perfino da quella comune fototessera, stupiva per la sua ingenuità. Era seria fino alla malinconia, ma quella serietà somigliava alla solitudine sognante di un bambino. Adesso invece la sua fisionomia era segnata da qualcosa di corrotto, che ne pervertiva i lineamenti. […]
Perfino il suo sonno ne veniva degradato; e i presenti inconsapevoli ne risentivano un malessere prossimo all’antipatia. Altri tipi dispersi e malandati erano già capitati in quell’ambiente; ma in lui si avvertiva una diversità, che quasi ne scansava la compassione comune.
Verso l’una di notte, quando da un pezzo nelle tenebre dello stanzone tutti dormivano, d’un tratto cominciò a dibattersi sul saccone urlando ossessivamente: «Basta! Ho sete! Voglio uscire di qui! Spegnete quella lampada!»
[…] I suoi occhi neri, brucianti e iniettati di sangue, vedevano nient’altro che un punto impietrito fuori di sé, come gli occhi degli alienati mentali. La sua faccia, prima livida, adesso era infuocata. […]
Nella smania si stracciava la camicia […] e si grattava il petto con tale ferocia da lacerarsi la pelle. […]
«Mama mia» si lamentò disperato «Mi voglio tornar a casa mia, voglio tornar…» […] Dopo circa un quarto d’ora […] Il suo farneticare diventò più quieto. Assorto in una cogitazione stramba, principiò a elaborare certi calcoli: addizioni, moltipliche, divisioni, che gli venivano alle labbra in un mormorio di spropositi, da parere una gag: «Sette per otto […] Sette per nove… trecentosessantasei giorni, che fanno undici al minuto.» corrugava la fronte con terribile serietà: « E ottoana all’ora, è il massimo… Quarantasei più cinquantatre, undicimila… Non pensare! Non pensare!» ripetè a questo punto, stranito, come se qualcuno lo avesse interrotto. E si rigirò sul saccone, di nuovo arrabattandosi a contare sulle dita: «Meno cinque… meno quattro… meno uno… quanto fa meno uno…? NON pensare! Meno uno… […] Quaranta dozzine di camicie […] non bastano per il servizio… Per ventiquattro coperti… Dodici tovaglie… millecinque esponente negativo… quante dozzine? Quest’è algebra, porcocan…»
[…]
«Pecché conta?» chiese impensierito Useppe.
«U curredo, sta discorrendo de nu curredo!» intervenne, con saccenteria scientifica, la nonna Dinda.]
Poi nella mia vita compaiono i libri. Arrivano come una malattia feroce e determinata di cui nemmeno un luminare lontano può avere la cura.
Ci compaiono più o meno casualmente. Tanto, tantissimo, lo devo a una professoressa di storia e italiano, Bianca Maria Pigati, che si dimentica di quanto io sia scemo e sotto quella coltre intravede delle ipotesi. Mi invoglia a leggere, facendomi capire che mi farebbe bene. Non mi accusa. Mi accompagna verso un mondo che non conosco e mi viene la febbre. Una febbre che non mi è ancora passata.
In casa mia ogni giorno entrava un quotidiano. Che io abbia memoria, La Stampa prima e Repubblica poi. Di libri non si parlava, anche se i miei genitori li vedevo leggere. A letto, in poltrona, ma non era un esercizio cui venivo allenato.
I primi autori che divoro sono Pier Vittorio Tondelli e Milan Kundera.
Per quanto riguarda Tondelli la colpa è della professoressa illuminata e savia di cui sopra. La ribalderia di Tondelli mi si attacca addosso, rimanendomi in cuore e biografia per sempre, come un breve ma intenso amore estivo.
Con Kundera ho un apprendistato più bislacco. Trovo l’Insostenibile leggerezza dell’essere nella libreria della cameretta che condividerò ancora per pochi anni con mio fratello. Lo prendo in mano, il titolo e la copertina mi respingono, così distanti dai miei vocabolari all’epoca asciutti e diretti.
Poi lo inizio a leggere, timidamente.
LETTURA
[Entrarono Nino e un altro, tutti e due rannicchiati sotto un unico telo impermeabile, di quelli che si usano per gli automezzi a riparo delle merci. Nino rideva a gola spiegata, come a un’avventura da romabzo poliziesco.
[…]«Questo è Quattropunte e io sono Assodicuori […] Siamo partigiani qui dei Castelli. Buonasera compagni e compagne. Domattina torniamo alla base. Vogliamo da dormire e da mangiare, e vino. […] Aho, ma se s’aprisse un poco la finestra? Qui dentro ce fa caldo. Tanto, se passano le pattuie de l’oscuramento qua siamo armati. E poi, cor temporale, la Camicia Nera nun s’azzarda. Quelli ciano paura pure dell’acqua piovana.»
Pareva divertirsi a provocare tutti: gli Italiani sottoposti, i Tedeschi occupanti, i rinnegati fascisti, le Fortezze Volanti degli Alleati, i manifesti con le requisizioni e la pena di morte. […] Ida lo seguiva con gli occhi, tenendosi in disparte […] Era certa, sotto il fondo della sua coscienza, che lui avrebbe attraversato la guerra, la caccia ai tedeschi, la guerriglia e le incursioni senza farsi alcun male, come un cavalluccio impunito al galoppo tra uno sciame di mosche.
[…] Nino guardò l’amico con una specie di rispetto: «Lui» spiegò a tutti, impaziente di fargli onore, «è un vecchio militante della Rivoluzione. Io invece so’ nuovo. Io» dichiarò con onestà sincera, ma strafottente, «fino a quest’estate militavo dall’altra parte.»
«Perché eri regazzetto» gli ribatté, in sua difesa, Quattro «da ragazzetti ci si sbaglia. L’idea si fa col giudizio dell’anzianità. Uno, da ragazzetto, non è ancora anziano per la lotta.» […]
Vivaldi Carlo non s’era fatto vedere, tenendosi per tutto il tempo dentro al suo covo. «Ma là dietro chi ci sta?» s’informò Nino. E senza storie spalancò la tenda.
[…] «E questo chi è?» disse Nino, manifestando, per la prima volta da quando era entrato, un’ombra di sospetto. «Chi sei?» […]
«Sono uno.»
«Uno chi?» […]
«Ma insomma, di che avete paura? Diffidate di me?»
«Noi nun c’avemo paura nemmanco der padreterno. E se non vuoi che diffidiamo di te, allora scuci.»
«Ma che cazzo volete sapere?»
«Come ti chiami?» […]
«Sei dei nostri?» […]
Carlo li guardò con un’occhiata tanto trasparente, che pareva divertita. «Sì» rispose con un rossore di bambino.
«Sei comunista?»
«Sono anarchico.»
«Beh, a esse pignoli» interloquì conciliante Giuseppe Secondo, che subito s’era aggiunto al colloquio, «il nostro grande maestro Carlo Marx sugli anarchici si dichiarava piuttosto contro che pro. La bandiera rossa è rossa, e la bandiera nera è nera. Questo è pacifico. Però in certe ore storiche tutte le Sinistre marciano unite, nella lotta contro il nemico comune.» […]
«A me» decise Nino «L’anarchia mi piace.»
Carlo fu quasi contento, fece un sorrisetto (il secondo dal giorno della sua venuta). […] Nino rimase alquanto silenzioso, tanto era preso dall’osservare Carlo Vivaldi: non più insospettito, ma intento, come i ragazzini quando nella loro banda arriva un tipo esotico o, in qualche modo, problematico. Di momento in momento, i suoi occhi ritornavano sulla faccia di lui che, invece, non guardava nessuno.
«Sei milanese?» gli domandò.
«… No… Sono di Bologna…»
«E allora perché stai qua?»
«E tu perché ci stai?»
«Io! Perché li fascisti me cominciaveno a puzzà, ecco perché! M’ero stufato della puzza delle camicie nere.»
«E io pure.» […]
«Sei scappato dall’esercito?»
Il labbro superiore di Carlo si mise a palpitare: «No», dichiarò con onestà, e quasi mitemente «a loro, qua, ho detto che ero soldato, così per dirne una… Ma non era vero. Io non appartengo a nessun esercito!» precisò con un senso acerbo, non si capiva se di onore o di disonore.
[…] «Beh, se vuoi parlà parla. Io me ne frego dei fatti tuoi.» […]
«E allora perché domandi?» […]
«E tu che ciai da nasconne?»
«Vuoi sapere da dove sono scappato? […] Sono scappato da un convoglio di deportati, in viaggio verso la frontiera orientale.» Era la verità, Ma Carlo la accompagnò con una risata stramba, come se raccontasse una barzelletta. […] poi, con una imrovvisa brutalità […] gli fece: «Tu le conosci certe celle di sicurezza tipo bunker, dette anticamera della morte? […] io, là dentro, ci sono stato 72 ore… Là dentro si conta sempre… si passan le giornate a contar… qualsiasi scemensa, per non pensare… si conta… l’importante è fissare il cervello su qualche esercissio idiota… elenchi… i pesi e le misure…la lista del bucato… […] se ti viene da pensare a tua madre, a tuo padre, alla sorela, alla ragazza, buttarsi subito a calcolare […] sensa pensar. […] Il mondo fa schifo.»
«Il mondo PUZZA!! Adesso lo scopri? Eh! Io è da mò che l’ho capito! È troppo schifoso e PUZZA! Però… […] a me… questa puzza m’arrazza! Ce so’ certe donne, no, che puzzano, de che? Boh! De donna! E co’ ‘sta puzza de donna te fanno arrazzà!… A me» proclamò Nino «m’arrazza tutta la puzza della vita!!»]
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Non ero mai stato in una libreria, se non per vendere i libri scolastici usati. Non era un luogo che prendevo in considerazione.
Altra parentesi: quando pochi anni dopo inizia a fare il libraio a Bologna, nella mia nuova vita, iniziava la grande crisi delle librerie, e mi accorsi che i clienti che mancavano erano proprio gli adolescenti. Non entravano, non si fermavano nemmeno a guardare le vetrine. Un fenomeno che oggi è diventato assodato e totale. La libreria non è un luogo dove andare. Chiusa parentesi.
Cerco una biblioteca.
LETTURA
[Solo per pochi giorni lo stanzone era rimasto spopolato. Fino dal principio di dicembre, non appena s’era sparsa la notizia che là, in fondo a quella valanga di fango e immondizia, esisteva un tetto disponibile, vi era cominciato l’approdo di nuovi esseri sperduti, nei quali Ida, coi suoi pregiudizi confusi, vedeva piuttosto una minaccia che una protezione. Aveva più paura, adesso, a lasciare Useppe in tale compagnia, che prima, a lasciarlo solo.
Fra gli altri numerosi, capitò la famiglia di un piccolo bottegaio di Genzano, istupidita dal terrore dei bombardamenti. […] Il capofamiglia, un uomo rosso e obeso, che soffiva di pressione alta, si era fatto vedere solo all’arrivo, poi subito era riscappato a Genzano, dove la sua bottega era già stata distrutta […] Il fatto era che in qualche parete della casa lui segretamente aveva murato, per salvarli, tutti gli oggetti di valore che gli restavano e per questo voleva tenersi là di guardia. Finché un giorno, sotto un bombardamento che tuttavia gli lasciò la casa intatta, morì di un colpo per la paura. […] Le donne erano anch’esse obese, ma pallide; e la madre aveva le gambe tutte gonfie di varici. Passavano la giornata intorno a un braciere,a consumare il lutto, in una inerzia totale e in un silenzio abbrutito. Aspettavano l’arrivo degli Alleati […] parlavano della prossima liberazione con voce spenta, simili a enormi galline appollaiate su un trespolo, intristite nel gonfio delle loro piume, e ridotte a aspettare l’arrivo del padrone che le porti vi dentro un sacco. Se Useppe si accostava al braciere lo scansavano.[…]
Capitò pure una donna di Pietralata, madre di uno dei fucilati del 22 ottobre. Costei […] vantava la bellezza di Armandino, famoso a Pietralata per la sua somiglianza con l’attore Rossano Brazzi. E difatti lei pure da giovane doveva essere stata bella.
[…] Il pagliericcio di Carlo Vivaldi era occupato da un giovane del quale Ida aveva specialmente paura, come di un lupo mannaro. È vero che costui aveva portato un miglioramento nello stanzone, applicando sulle vetrate rotte delle finestre, al posto della carta, dei pezzi di compensato,; ma per il resto, somigliava, piuttosto che a un uomo, a un qualche altro mammifero affamato di specie notturna. Era alto e muscoloso, ma curvo, e con un viso cadaverico, dai denti in fuori. Non si sapeva da dove venisse, né di che mestiere, né perché fosse capitato là; ma alla parlata pareva romano. Lui pure, se Useppe si accostava, lo mandava via […].
Passò il tempo dei Mille! La sola che ogni tanto desse retta a Useppe era la madre del fucilato […] una sera […] gli disse «Pòro uccelletto de mamma, me sa che tu nun ce la fai a crèsce, che campi poco. Questa guèra è la stragge de le criature.»]
Nella mia adolescenza noiosa avevo cominciato a nutrire un certo gusto per le lunghe passeggiate solitarie. Gusto e abitudine che mi porto ancora dietro. Chilometri, ore, pensieri che prendono il ritmo dei piedi, anche inciampando.
In queste passeggiate scoprivo e guardavo Torino. Arrivai alla Biblioteca centrale di vai Cittadella per caso. Ci vidi davanti tanti ragazzi, con delle facce che mi sembravano intelligenti. Mi sembravano intelligenti loro, e quelli che vedevo davanti a Palazzo Nuovo, all’Università. Invidiavo a tutti questi non già la faccia intelligente, ma l’impressione che mi restituivano: erano persone che facevano qualcosa che gli piaceva. Non si annoiavano.
Varcai il portone della Biblioteca con fatica, non sapevo se dentro mi avrebbero fermato, o controllato, o chiesto qualcosa che mi avrebbe messo in imbarazzo. Fu tutto invece semplice.
La mia prima tessera della Biblioteca era fatta. Con il primo timbro!
L’ho persa, come ho perso tante cose e tanti ricordi.
Di sicuro ero preda della fame, tanto che ogni giorno aggiungevo un timbro che significava un libro che significava una nuova conoscenza. Milan Kundera me lo divorai così, in poco più di una settimana. Un libro al giorno. Una febbre, la prima.
Ero un lettore, adesso potevo prendere il largo.
Ma quanto mare che c’è.
Io non ne ero spaventato, perché potevo solamente intuirlo.
LETTURA
[Una volta poi, lo strillone dei giornali (il quale, invero, da parte sua, definiva se stesso giornalista) trovando là sulla tavola un quotidiano, per divertire Useppe ne fabbricò in un momento un cappello tipo carabiniere, e se lo mise in capo. Al vedere il giornalista, con la sua faccia tonda e il mento a scucchia come i nani, che si dimenava sotto quella lucerna, Useppe rise rumorosamente. Poi […] volle provarlo […] su se stesso. Ora, la sua testolina era così piccola da sparire interamente sotto il cappello e lui, fra tutto questo, rideva e strarideva, come gli fosse entrato in gola uno stornello matto. […]
Quel giorno era domenica […] Ida aveva lasciato in cucina un cartoccio di frutta mezzo aperto […] Useppe, tentato dalla frutta, si trovò in mano il foglio di carta che la involgeva: già meditava, forse, di farcisi un cappello da carabiniere? Era una pagina di settimanale illustrato, male stampato in una tinta violacea, di quelli a buon mercato […] il massimo posto, anche lì, era occupato dalle testimonianze della guerra. La pagina riproduceva qualche scena dei lager nazisti, dei quali, fino all’invasione alleata, si avevano solo notizie sommesse e confuse. Appena adesso si incominciavano a svelare questi segreti del Reich e a pubblicarne fotografie che, in parte, erano state riprese dagli alleati all’apertura dei campi; in parte erano state recuperate da archivi che i vinti non avevano fatto in tempo a distruggere; e in parte erano state trovate addosso a prigionieri o morti SS i quali le serbavano come prova o ricordo della loro azione personale. A causa del carattere divulgativo e poco scientifico della rivista, le foto stampate in quella pagina non erano nemmeno delle più terribili di quante se ne vedevano allora. Esse ritraevano
Un cumulo di prigionieri assassinati, nudi e scomposti e già in parte disfatti
Una grossa quantità di scarpe ammonticchiate appartenute a quelli o altri prigionieri
Un gruppo di internati ancora vivi ritratti dietro una rete metallica
La “scala della morte” di 186 gradini altissimi e irregolari che i forzati erano costretti a percorrere con carichi enormi fino alla cima […]
Un condannato in ginocchio davanti alla fossa che lui stesso ha dovuto scavarsi […]
Una piccola serie di fotogrammi (quattro in tutto) che presentano fasi successive di un esperimento in camera di decompressione, eseguito su una cavia umana. […]
Tutto ciò era spiegato, a quanto io ricordo ancora oggi, da brevi diascalie poste al basso di ciascuna foto. Però a un ignorante che non sapeva nemmeno leggere, lo spettacolo abnorme di quella pagina doveva apparire un’astrusità senza risposta. […] Ci si vede un cumulo caotico di materie biancastre e stecchite, di cui non si discernono le forme, e, altrove, un enorme sfasciume di scarpacce ammonticchiate che, a vista, si lascerebbe scambiare per un cumulo di morti. Una scalinata lunga, […] che si perde nel quadro, con in basso certe minuscole sagome accartocciate […] Un giovane ossuto, dagli occhi grandi, accosciato sull’orlo di una buca, con a lato una specie di mastello e intorno tanti militari che hanno l’aria di divertirsi […] e dall’altra parte della pagina, delle figure di ometti scheletrici, occhieggianti dietro una rete, con addosso certe casacche a strisce, flosce e cascanti, che li fanno somigliare a burattini. Alcuni di costoro hanno la testa nuda e rapata, altri portano una scopo letta; e le loro facce si atteggiano a un sorrisetto agonizzante, misero come una depravazione definitiva.
Da ultimo, nel basso della pagina, ci si vede, in quattro foto successive, uno stesso uomo dalla faccia inebetita, tutto stretto in grosse cinghie, sotto un soffitto basso. Nel centro del soffitto pare di scorgere una sorta d’apparecchio somigliante a un imbuto; e l’uomo rovescia in alto gli occhi a quell’oggetto indefinito, come pregasse dio. Si direbbe che le sue diverse espressioni, nelle quattro foto, dipendono dagli atti incomprensibili di quella specie di dio. Da una viltà stuporosa, la faccia ebete trapassa a un’ambascia orrenda; poi, a una gratitudine estatica; e poi di nuovo alla viltà stuporosa.
Resterà per sempre impossibile sapere che cosa il pover analfabeta Useppe avrà potuto capire in quelle fotografie senza senso. Rientrando, pochi secondi appresso, Ida lo trovò che le fissava tutte insieme, come fossero un’immagine sola; […] All’accostarsi della madre, i suoi occhi si levarono a lei, vuoti e scolorati, come quelli di un ciecolino. E Ida ne risentì un tremito per il corpo, quasi che una grossa mano lo scuotesse. Ma con una voce sottile e dolce per non inquietarlo, gli disse, al modo che si usa coi pupi ancora più piccoli di lui:
«Gettala via, quella cartaccia. È brutta!»
«È bbutta» lui ripeté (certe combinazioni di consonanti non ancora imparava a pronunciarle). E senz’altro ubbidì alle parole di Ida; anzi, quasi impaziente, la aiutò a stracciare come cartaccia quel pezzo di giornale. Da lì a un minuto, si udì sotto le finestre la cantilena di un ambulante che passava in istrada con il suo carrettino. E tanto bastò a distrarlo. […] Anche l’incidente odierno, secondo il solito, pareva trascorso senza lasciare traccia nella sua capoccetta. ]
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La storia di Elsa Morante la leggo tardi, faccio tutto tardi.
La leggo a vent’anni, e lì si cristallizza. È il suo posto, ora ne sono convinto.
La leggo nella sua retorica e nella sua epica sventura.
La faccio mia.
Nino, Ninuzzo, diventa mio amico, fratello, poster da appendere in camera più ancora di Che Guevara, perché il Che l’ho imparato e invidiato ad altri. A Nino ci sono arrivato io e solo io conosco quel momento di ribalda adesione da una parte, di raccoglimento del sangue in senso opposto.
Di morte.
La storia di Elsa Morante paga il prezzo degli anni, molto più delle altre opere della scrittrice. Risulta un romanzo datato, impolverato. Non lo disinneschi, però, il passare del tempo.
Io e voi lì dentro ci troviamo quello che il mondo non riesce più a dire.
Sono gli anni quaranta del novecento.
La guerra.
La fame.
La sventura.
I soldi che non ci sono.
Il mondo senza sogni.
La vita adulta infame.
La vita giovane.
L’impossibilità di stare da una parte senza guardare di là.
Un libro che non è più solo il romanzo delle polemiche, è un documento polemico di un mondo che non dovrebbe esistere più, celato e spostato dietro l’angolo.
Useppe ride ancora.
Noi ci stiamo abituando a piangere.
Cade tutto.
Non ridiamo più.
Sono gli anni duemila.
La guerra.
La fame.
La sventura.
I soldi che non ci sono.
Il mondo senza sogni.
La vita adulta infame.
La vita giovane.
L’impossibilità di stare da una parte senza guardare di là.
La storia.
LETTURA
[Ninnuzzu, quell’estate, portava delle camicie con disegni a fiorami e a molti colori, venute dall’America e acquistate a Livorno. E tre camicettine simili le portò in regalo pure a Useppe. Non si scordò nemmeno di Ida, recandole in dono degli asciugamani con sopra stampato R.A.F. e delle pantofole di paglia africane. Inoltre, le regalò un portacenere réclame di metallo che pareva oro, rubato da un albergo. […]
Bella non era un cagnetto da città al pari di Blitz; e al suoi ingresso nel minuscolo appartamento, questo parve rimpicciolirsi ancora, come a un’invasione smisurata. Ma Ida presentemente avrebbe accolto volentieri perfino un vero orso polare, tanto era contenta che Ninnuzzu fosse di nuovo a casa, sia pure soltanto di passaggio. Bella dormiva con lui nella stanzuccia, ai piedi del letto, aspettando quieta e paziente, alla mattina, che lui si destasse. Però, stava pronta a cogliere il primo segno, anche minimo, del suo risveglio: così che appena lui cominciava un poco a stirarsi, o dava uno sbadiglio, o semplicemente socchiudeva le palpebre, immediatamente esa balzava in un fracasso entusiasmato, ad uso di certe tribù quando sorge il sole. E così la casa era avvertita del risveglio di Nino.
Ciò succedeva in genere verso l’ora di mezzogiorno. Fino a quel’ora, Ida, nel suo solito affaccendarsi per la cucina, badava a far piano per non disturbare il suo primogenito di cui poteva udire il fresco russare da dietro l’uscio. Questo suono le dava un senso di orgoglio. E se Useppe, svegliandosi per primo, chiassava un poco, lo ammoniva di far piano, proprio come se là dietro quell’uscio dormisse il Capo di casa, e un gran lavoratore. Di fatto, che Nino lavorasse, era cosa certa, poiché guadagnava soldi […] ma quale fosse esattamente il suo lavoro, restava un punto confuso (che si trattasse di contrabbando o borsa nera di merci lo si sapeva più o meno; ma un tale genere di lavoro significava solo un altro enigma allarmante per Ida).
Due minuti dopo lo sfrenarsi di Bella, Nino stesso erompeva dalla cameruccia, coperto solo da uno slip, e si lavava in cucina con una spugna, allagando tutto il pavimento. Poco dopo mezzogiorno, qualcuno lo chiamava a gran voce giù dal cortile (per lo più era un giovanotto in tuta da meccanico) e lui si scagliava giù insieme a Bella, ricomaprendo solo casualmente a intervalli nel corso della giornata. Il massimo sacrificio, da parte di Ida, era stato cederli le chiavi di casa, per le quali essa, al solito, provava una enorme gelosia, nemmeno fossero state le chiavi di San Pietro. […] Tutto ciò ebbe appena la durata di cinque giorni; ma tanto bastò a Ida per caricarsi la fantasia. Specie al mattino, quando lei stava in cucina a pulire le verdure, e di qua dormiva Ninnarieddu, e di là Useppe, le pareva di avere ricostituito una vera famiglia: come se la guerra non ci fosse mai stata e il mondo fosse di nuovo una abitazione normale. Il terzo giorno, poiché Nino, sveglio prima del solito, si attardava nella stanzetta, essa andò là a trovarlo. E infine si indusse, benché peritosamente, a proporgli addirittura di riprendere gli studi, così da “assicurarsi un avvenire”. Lei stessa poteva sforzarsi a mantenere tutti e tre loro, ancora per il tempo necessario: magari avrebbe cercato nuove lezioni private… Difatti l’attuale occupazione di Nino le pareva senz’altro provvisoria, non tale, certo, da offrirgli una carriera sicura e di fiducia!
[…] «A’ Mà, ma te rendi conto!? […] A’ Mà, che me stai a dì? Mò c’arisemo con le lauree!!! Io sono plurilaureato, a’ mà!»
«Non dico la laurea, ma almeno il diploma… Un diploma conta sempre nella vita… volevo dire… la licenza liceale… il diploma di maturità… quello… come base…»
«Io so’ maturo! A’ mà! So’ maturo!!»
«Ma ti costerebbe poco o niente… oramai stavi quasi al punto dell’arrivo… al liceo, quando smettesti… basterebbe un piccolo sforzo… l’intelligenza non ti manca… e dopo tanti sacrifici… eh! Adesso che la guerra è finita!»
[…] «La guerra è stata una commedia, a’ mà!» E si alzò in piedi. Così denudato, moro, dentro la stanzuccia accaldata e misera, pareva un eroe: «Ma la commedia non è finita!» aggiunse minacciosamente. Pareva gli fosse tornata la sua faccia di bambino, proterva e quasi tragica nei propri capricci. […] «Questi se credono de ricomincià tutto come prima, nun te n’accorgi? Embè, se sbaieno a’ mà! Ci hanno messo in mano le armi vere, quann’eravamo pischelli! E mò noi ce divertimo a faie la pace! Noi, mà, JE SFASCIAMO TUTTO! […] E vi credete pure di farci tornare alla scuola!» riprese, parlando italiano civile apposta con l’intenzione di sfottere sua madre «il latino scritto il latino orale la storia e la matematica… la geografia… la geografia io me la vado a studià sur posto. La Storia è una commedia loro che ha da finì. NOI gliela famo finì! E la matematica… Lo sai qualè il numero che più mi piace a’ mà? ZERO!… […] Noi siamo la generazione della violenza! Quanno s’è imparato er gioco delle armi, ce se rigioca! Loro s’illudono de fregacce un’artra vorta… i soliti trucchi, il alvoro, i trattati… le direttive… i piani centenari… le scuole… le galere… il regio esercito… E tutto ricomincia come prima […] Noi siamo la prima generazione dell’inizio […] Noi siamo la rivoluzione atomica! Noi le armi non le deponiamo, a’ mà! LORO […] nun lo sanno, a’ mà, quant’è bella la vita.»]