novembre 2015_
“Io qui non vengo a risolvere nulla. Sono venuto solo per cantare e farti cantare con me”
Spesso Francesco Di Giacomo citava questa poesia “La canzone del taglialegna” di Pablo Neruda. Dicendo che “la musica diventa uno stupefacente mezzo per sensibilizzare, ma non risolve niente, perchè cantare certe cose e trovare, dopo trent’anni, che le cose che hai scritto sono ancora vere ed attuali non fanno di te un genio, fanno di te un idiota, dentro alla stupidità umana, che continua a fare le stesse cose, stupide cose“.
17 ottobre_ UNA NOTTE SPECIALE
L’occasione è un “asado” a casa di Enrichetta Maroni che è una tra le più anziane delle Madres. Piccola, minuta non si è mai piegata neppure quando i militari facevano scrivere sui muri davanti alla sua casa “Madre di terrorista”.
Ad oltre 90 anni ha voluto convocare un “asado”, la grigliata tipica della famiglia argentina riunendo una ventina di ragazzi, oggi 30/40enni che rappresentano gli Hijos, ovvero l’organizzazione che formatasi all’inizio di questi anni 2000 ha riunito i figli degli scomparsi argentini ridandogli, con la propria lotta, un’identità. Tanti ne sono transitati, loro rappresentano quelli che il Presidente Nestor Kirchner, e poi la moglie Cristina, hanno voluto come quadri dirigenti per una politica nuova.
Altro che rottamazione o ricambio!
Dei trentenni sono diventati protagonisti necessari a colmare il vuoto di una generazione annullata perché fatta scomparire, quella dei loro padri.
Loro lo sanno e sono riconoscenti senza e senza ma.
Lo dice Carlitos Pisoni, per tutti Charlie. “Nestor e Cristina ci hanno dato quello che non potevamo nemmeno pensare possibile, i processi e la giustizia per i nostri padri.
Chi in Italia semplifica il kirchnerismo riducendolo all’azione “politica di una matta” dovrebbe essere qui questa sera, vedere questi volti tesi carichi di responsabilità, di una generazione che benché troppo giovane si è fatta carico della rigenerazione di un paese.
L’ “asado” è una cena, come si dice qui di “despedida”.
A fine ottobre ci saranno le elezioni poi il 12 dicembre l’insediamento del nuovo Parlamento e del nuovo Governo.
Enrichetta che a causa della dittatura ha perso due figli e il genero non ha mai smesso di lottare per la memoria, la verità e la giustizia e con la nipote Paula e la nuora Maria Beatriz Maroni ha testimoniato al processo contro gli assassini dei figli. Lei ha convocato questa cena quale omaggio a Martin Fresneda che, non ancora 40enne, da oltre 3 anni e mezzo è Ministro ai Diritti Umani.
Martin è stato uno dei fondatori degli Hijos di Cordoba e dirigente della delegazione provinciale delle Ande. Nominato Ministro ha rimpiazzato il defunto Luis Eduardo Duhalde che lo aveva preceduto.
Martin è stato un giovane e agguerrito avvocato dei primi processi che dal 2004 ad oggi hanno portato alla sbarra molti dei responsabili del genocidio. Ha affrontato repressori dello spessore di Luciano Benjamin Menéndes, che terrorizzava l’area cordobese o lo stesso Jorge Rafael Videla, capo della Giunta militare.
Adesso quando guarda indietro dice “è incredibile tutto quello che abbiamo fatto. Potevamo fare di più? Si può sempre, ma non credo che conti questo. Abbiamo fatto davvero molto”.
Lo conferma anche Paula Maroni che è nipote di Enriqueta, figlia di Juan Patricio Maroni, uno tre scomparsi per cui lotta la nonna. Quando fu sequestrato lei aveva un anno, e dai suoi 18 milita in Hijos. Li ha rappresentati in Italia quando Assemblea Teatro li invitò nel 2001. Ci venne con Florencia che non è più nell’organizzazione ma in questo paese libero, si è sposata con una donna e ha avuto un figlio che ha colmato i tanti vuoti della sua esistenza.
Nel maggio del 2001 mentre era ospite a casa mia una sera mi convocò e mi disse “tu sai che ho vissuto 19 anni senza padre, adesso l’ho trovato, sei tu, e dunque ti adotto.”
Sono qui, a questa cena, perché nel mio giro in Sud America sono passato a trovarla e a compiere il mio dovere di “padre adottivo”.
Lei parla delle difficoltà del cambiamento di questi ultimi anni. Prima eravamo uniti contro qualcosa e qualcuno, per questo tutto era estremamente chiaro. Gestire la politica è invece un’altra cosa. La responsabilità di costruire divide, e così ci siamo anche scontrati, divisi, ed è stata dura.
Interviene anche Lucrezia per gli amici Maluca, che ha 65 anni e appartiene dunque alla generazione dei padri. E’ rientrata in campo da poco e subentrerà al posto di alcuni di quelli che se ne andranno. Spiega che lei è viva perché ha avuto la fortuna di poter esiliare, e che quando è tornata in Argentina gli organismi per i Diritti Umani erano qualcosa a cui non riusciva ad avvicinarsi per il troppo dolore che questo le causava.
Ha avuto necessità di tempo, lo stesso tempo in cui loro, “i ragazzi”, sono cresciuti bruciando ogni tappa. Poi ce l’ha fatta e ha trovato intensità e passione, la loro, e ora è pronta. Ma li guarda e dice “i vostri padri conoscevano il pericolo ma erano felici. Siamo stati la generazione più felice che ho conosciuto”. C’è un’intensità, un silenzio nell’ascolto, che è abbraccio, che è un calore anche se la notte di primavera avanza e superata l’una nel patio l’aria diventa decisamente gelida ma nessuno riesce ad abbandonare il tavolo.
Paco Ignacio Taibo II per la sua biografia del Che ha usato un titolo meraviglioso “Senza perdere la tenerezza”. Ne verifico stasera tutto lo spessore e mi risuonano e capisco meglio le parole di Taty Almeida quando mi diceva “Oggi la nostra serenità sono questi giovani meravigliosi che abbiamo la fortuna di avere con noi. Io viaggio e faccio incontri in molti luoghi, vedo le inquietudini e riconosco però che questa formazione politica e questo senso della militanza non si trovano in modo altrettanto forte altrove.”
Questa generazione argentina riesce a far politica da oltre 15 anni, a tutti i livelli, senza smarrire la tenerezza. “Ti ricordi Enriqueta” riprende Lita Boitano “di entrare alla Esma a tutte noi non ci passava nemmeno per la testa e invece i ragazzi con il loro entusiasmo ci hanno convinte, e adesso è il nostro centro per l’organizzazione, per la memoria. Perché – rivolgendosi a Paula, Charlie, Martin e agli altri – noi li volevamo vivi i 30.000, portavamo le loro foto appese al collo ma voi ci avete restituito la loro storia. Quando siete apparsi come organismo ci siamo anche scontrati”. Mi guarda e scherzando dice “Renzo vi ha offerto una casa proprio quando noi vi avevamo cacciato dalla sede di Familiares, ma poi proprio grazie alla vostra irruenza ci avete restituito le storie dei vostri padri e noi abbiamo ascoltato, abbiamo capito e ci siamo lasciate convincere”.
Nelle sue parole c’è il disegno di un ponte, quello che Madres e Abuelas tante volte hanno dichiarato fosse necessario. Nelle guerre si abbattono i ponti per dividere. Dunque serviva costruire un ponte fra generazioni per superare e miscelare i linguaggi e le culture. Un ponte che implicitamente adesso dimostra la grandezza di queste donne capaci di andare ben oltre i limiti delle generazioni, ma dimostra anche la straordinarietà di questi ragazzi capaci con la loro forza e convinzione di superare il vuoto del loro baratro adolescenziale e quello ancora più pesante di un’Argentina priva della generazione di mezzo. Di saperlo riempire quel deserto per sé ma anche con gli altri. Adesso che hanno superato l’età dei loro padri, che hanno assunto incredibili responsabilità, sono privi di aggressività, non c’è traccia di violenza in loro che ne sarebbero giustificati. La tenerezza la percepisci e la cogli nei loro sguardi, negli abbracci, nelle strette di mano, nel modo stesso di proporre le loro parole.
Era il maggio del 2000 quando raggiunsi Buenos Aires per conoscere gli Hijos, incontrai Carlitos Pisoni che era un bel ragazzo, lo è ancora oggi anche se nel tempo ha perso molti capelli. Si definisce irruento, sempre pronto a spingersi in tutte le direzioni. Da subito ha avuto la statura del leader anche se il loro movimento non lo prevedeva, era orizzontale, senza capi e dunque le decisioni si prendevano assieme.
Gli chiesi allora di cosa avessero bisogno. Mi rispose di una sede. Gliela garantimmo per diversi anni. Con Massimo Carlotto stavamo allestendo “Più di mille giovedì” che sapevamo essere uno spettacolo importante per la memoria ma volevamo fosse anche attivo nel presente. Così aiutare gli Hijos ad avere una Casa per l’Identità, per la loro formazione politica ed umana, fu nostro compito sera dopo sera.
Spiegavamo al pubblico l’obiettivo poi sul palco restavano le scene e una cassetta di cartone. Si riempiva di offerte che mese dopo mese servirono a pagare l’affitto e il telefono, il fax, i primi computer per allestirla e farla funzionare per alcuni anni.
Li ritrovo oggi, 15 anni dopo, e la casualità vuole che li debba incontrare in uno dei passaggi cruciali del loro percorso.
Una fortuna essere presente con loro, scalda davvero l’anima.
II racconto_
Questo recente nuovo passaggio con Neruda in Cile è stato intenso e compatto, viaggio dopo viaggio, incontro dopo incontro.
Ho ritrovato amici che non vedevo da tempo quali Fernando Saez, Carolina Rivas, Jaime Pinto, direttori della Fundacion e delle tre Case del Poeta, poi Camilo Parada del Museo de la Memoria e ancora Marcelo Contreras, amico e regista televisivo, Rafael Contreras attore nel primo tour de “El funerale di Neruda” in Cile, e con loro tanti altri ne ho conosciuti, prima tra tutte Anna Mondavio, nuova vitale e sorridente direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura, Mario Ricci, deciso e bravo Ambasciatore del nostro paese al “fin del Mundo”, Enrique Winter, e Tamym Maulen, giovani talentuosi poeti cileni o Ignacio e Francisca, semplici viaggiatori con cui ho condiviso il piacere di una colazione a Valparaiso.
Su tutti questi incontri il Poeta e le sue polene hanno vegliato attenti e meravigliati sempre che la vita e i suoi incontri possano fornire ancora “poesia”. Così in questo disordinato diario scritto a volte in presa diretta ma, il più, anche attraverso i ricordi metto a censura il racconto di una notte davvero speciale a Buenos Aires sulla via del ritorno. Avevo chiesto uno stop nel mio biglietto di volo per poter riabbracciare Taty Almeida che dopo 8 mesi di ospedale e quattro interventi è finalmente tornata a casa. A casa? Un eufemismo? Certo l’ho incontrata a casa sua, ma subito il giorno dopo, presso il Salone del “Museo Historico y Numismatico” dove sono andato ad ascoltarla in una conversazione sull’influenza dei processi socio-economici nel cinema argentino dal ’76 ad oggi, ovvero durante e dopo la dittatura. Taty parlava con Pacho O’Donnel e Carlos Sorin e ha affermato “ché la dittatura per esistere non è stata solo militare ma ha avuto l’appoggio e la connivenza di settori della società civile e la cultura cinematografica non è stata esente producendo film spazzatura che sostenevano direttamente o indirettamente il regime. Al tempo stesso però anche durante la dittatura ci sono stati artisti coraggiosi che hanno cercato attraverso metafore di far giungere segnali di resistenza o di indirizzare verso un’ “ altra” lettura della realtà. Dopo, con il ritorno della democrazia, ci sono stati film davvero importanti come “Garage Olimpo”, “La notte delle matite spezzate”, “La storia ufficiale”, e altri.”
Ecco l’ho vista di nuovo forte e combattiva come la ricordavo, e come la ricordate, smagrita certo, apparentemente molto più fragile, ma assicuro che quando indossa il pañuelo torna ad essere la “combattente decisa” di sempre, una Madres de Plaza de Mayo.
E proprio a proposito di quella storia è stata un’altra Madre ad invitarmi in una notte speciale che volentieri racconto.
16 ottobre_
vai al video _ https://www.youtube.com/watch?v=YV7aLb8HDEg&feature=share
Nel mio soggiorno in Sud America ho partecipato all’iniziativa “Dialogos en Movimiento” dove ho incontrato un’ottantina di cileni nati dopo la fine della dittatura. Ottanta giovani ragazze e ragazzi cresciuti distanti dalle violenze dal Golpe e dalle rigidità di un paese sotto regime.
Ottanta adolescenti delle attuali scuole superiori del paese che hanno scelto, tra i diversi libri offerti loro gratuitamente dal “Plan Nacional de la lectura”, che tra il 2015 e il 2020 accompagnerà nella lettura migliaia di giovani cittadini cileni, i miei due volumi “Orfana di figlio” e “Il funerale di Neruda”.
Così primo, e unico, europeo mi trovo in questa avventura di incontro con l’autore.
Non scordate che ora in Cile è l’inizio della primavera e dunque la scuola è agli ultimi suoi mesi di attività prima delle vacanze estive di dicembre – febbraio.
I ragazzi dunque hanno letto i testi e lavorato con i loro insegnanti e a conclusione del ciclo di lavoro, il Ministero all’Educazione e quello della Cultura, offrono loro la possibilità dell’incontro con chi ha scritto il testo oggetto della loro attenzione.
Sono molto curioso perché in questi ultimi 20 anni ho parlato e riparlato, lavorato e rappresentato migliaia di volte questi argomenti ma mai mi è capitato di farlo con questa generazione venuta oltre.
Il primo incontro è in una scuola femminile e le 40 ragazze (due classi) hanno scelto la storia di Taty Almeida e delle Madri di Plaza de Mayo. La prima osservazione offre subito il tono alto dell’incontro. Sono state colpite dall’assenza, dichiarata dalla protagonista, di una parola in grado di definire la perdita di un figlio. “Si perde un marito e si è vedova, si perde un padre si è orfani ma se si perde un figlio si è…… niente. Si è solo dolore.” Così prima di incontrarmi hanno deciso di lavorare per cercare una parola che specifichi meglio il concetto di orfana di figlio.
Alla fine dell’incontro mi offriranno una ventina di fogli scritti a mano con il risultato del loro lavoro.
Ma prima tante domande sulla storia e sulla mia esperienza, sulla scrittura e sulle emozioni.
Domande, tutte, molto pertinenti e motivate da una curiosità vera e intensa.
Il secondo gruppo è una formazione mista maschi e femmine provenienti invece tutti da diverse classi che hanno scelto il testo su Neruda.
Sono molto vispi nelle loro divise blu. Perché se la dittatura è finita da molti anni, a scuola maschi e femmine portano tutt’oggi gonne o pantaloni blu o grigi su maglia blu e camicia bianca.
Loro le indossano ma sprizzano entusiasmo, sono curiosi, vogliono sapere dell’Italia, di Torino, di perché amo il Cile e se Neruda era “antipatico” come dicono alcuni loro nonni.
Mi commuovono raccontandomi le loro emozioni e senza vergogna confidano loro lacrime durante la lettura.
Li ha colpiti molto l’alternanza della gioia e della tristezza, dei momenti luminosi o tragici della vita di Pablo. Li stupisce di poter parlare con chi ha scritto un libro che hanno letto, ci scherzano e mi dicono “allora non sei morto, perché pensavamo che chi lascia libri se ne sia già andato”. Sono simpatici, timidi o brillanti ma visibilmente felici di questa esperienza che stanno vivendo.
Mi lasciano questa grande indicazione del loro essere oltre. Gli interessa la vita e l’opera di Neruda, così come sapere sul Golpe e la dittatura ma non solo, il loro campo è molto aperto e vasto, anche se prima dell’incontro hanno spento quello dei loro cellulari. E non per semplice gentilezza “Vogliamo stare con lei!” mi hanno detto.
Le tre ore a nostra disposizione filano via in un botta e risposta continuo, vivace e divertente. Ridiamo, e loro sono felici di capire che leggere è aprire finestre sulla geografia. “Se sono arrivato fino al Vostro continente è perché ho letto Marquez, Llosa, Sepúlveda e tanti altri scrittori latinoamericani che mi hanno fatto viaggiare prima attraverso le pagine, e poi convincendomi ad arrivare sino a qui. Ma i libri sono anche finestre sulla vita interiore degli uomini e per questo mi sono avventurato tra poeti, donne disperate che hanno perso i figli e nelle diverse umanità talvolta anche molto felici”. Noi insieme adesso lo siamo e così non vogliono più andarsene. Mi abbracciano, fanno foto, sono luminosi.
Ho la decisa impressione che davvero sia valsa la pena attraversare l’Oceano per incontrarli.
15 ottobre_
Mi piace inserire in questo diario una riflessione sul Cile scritta da Angelo Scarafiotti in un nostro precedente tour e finora mai apparsa sul nostro sito. Scritta ieri, vale per il presente e per domani.
Grazie ad Angelo
A tratti, pur immersi nelle nostre complesse esistenze, possiamo definirci persone fortunate.
Io, quantomeno, posso affermarlo.
Lavorare e vivere facendo il mestiere dell’attore rappresenta, di per se, l’opportunità di esprimere sentimenti, desideri e riflessioni di fronte ad un pubblico. Un privilegio per cui non smetterò mai di essere grato a coloro che partecipano allo spettacolo restituendoci da spettatori le loro emozioni e il loro apprezzamento.
Ma quando quel mestiere, dico quello dell’attore, lo pratichi e lo vivi in una compagnia come Assemblea Teatro le opportunità di vivere esperienze straordinarie si moltiplicano esponenzialmente, trasformandosi in viaggio, incontro e conoscenza di altre persone, altri luoghi e altre culture. Queste opportunità ti restituiscono ricchezza, stupore, meraviglia e anche qualche obbligo. L’obbligo di ricordare e, soprattutto, l’obbligo di raccontare.
Quest’anno il Salone del Libro di Torino ha ospitato un splendido e affascinante paese: il Cile.
Cile, meraviglioso Cile, pieno di bellezza e di contraddizioni. Una follia geografica, una striscia di terra che corre per chilometri dal sud al nord dell’America Latina, stretta tra l’oceano e la cordigliera andina.
Ho conosciuto il Cile mentre portavamo nei luoghi, nelle case di Pablo Neruda, lo spettacolo che racconta gli ultimi giorni di vita del poeta, la sua morte ed il suo funerale svoltosi pochi giorni dopo il golpe di Pinochet, ultima manifestazione pubblica contro il regime. Le dimore di Pablo Neruda sono scrigni pieni di oggetti meravigliosi, memorie di viaggio e di vita che commuovono per bellezza, semplicità e tenerezza. Ogni conchiglia, ogni insetto, ogni bicchiere colorato porta con se una piccola storia che varrebbe la pena raccontare e tanti altri luoghi in tutto il paese stimolano ancora oggi in me il ricordo e la memoria. Penso agli spazi aperti, al vento a Isla Negra, all’oceano impetuoso che chiede rispetto.
Ma è un piccolo luogo che voglio raccontare.
Questo luogo ha la forma perfetta di un cubo piantato di traverso nel terreno. Una piccola passerella conduce alla porta di ingresso e quando l’attraversi, venendo dalla luce del sole, resti per un istante quasi accecato, poi gli occhi si abituano e dentro quel piccolo spazio vedi una teca piena di materiale ferroso arrugginito. Si tratta di un qualche manufatto umano che ha patito una forte erosione, forse un reperto storico sepolto da una qualche antica civiltà precolombiana…
No, i reperti sono più recenti, e quella ruggine, quella profonda erosione è dovuta all’acqua di mare in cui sono stati immersi per anni. Quegli strani oggetti consumati sono rieles, rotaie della ferrovia. Ti chiedi come siano finite in mare le rotaie del treno.
Quando ti avvicini, e osservi con attenzione, ti accorgi che su uno di questi oggetti è appoggiato un bottone da camicia. E ti domandi cosa ci faccia li un bottone… chissà chi l’avrà perduto in mare…
poi qualcuno ti spiega e finalmente capisci.
Quelle rotaia erano la zavorra utile ad appesantire i corpi di quegli esseri umani che il regime di Pinochet voleva cancellare dalla memoria del paese. Cadaveri chiusi in sacchi appesantiti dal ferro per farli meglio affondare nella profondità degli oceani.
E quel bottone è una piccola memoria per una vita spezzata.
Un piccolo luogo il Monumento Rieles (così si chiama quel cubo). Piccolo ma potentissimo. Situato a sua volta in un luogo più grande e denso di memoria: Villa Grimaldi, oggi parco per la pace ma, un tempo, prigione e luogo di tortura del regime.
Ricordo il silenzio che travolse tutti noi all’uscita dal monumento.
Quel breve viaggio a ritroso nel tempo ci inchiodò e ci costrinse al rispetto.
Amo pensare che quella travolgente emozione che provammo riuscimmo, almeno in parte, a restituirla a coloro che ci videro in scena proprio lì, a Villa Grimaldi, in quei giorni.
E penso sia un dovere, finché avremo fiato e testa, raccontare quelle storie, per essere noi, per primi, spazi di memoria come il Monumento Rieles.
6 ottobre_
Pietà l’è morta, era il testo di una ballata scritta da Nuto Revelli.
Sono entrato dopo molti anni per la prima volta nell’Ambasciata d’Italia a Santiago del Cile, passando quel portone in calle Clemente Fabres che tanti cileni nei giorni del Golpe riuscirono a varcare cercando la libertà che in quelle ore era la sopravvivenza.
Ho percorso il giardino e le sale che mi avevano raccontato e descritto il Console Enrico Calamai con le sue parole e l’Ambasciatore Emilio Barbarani nel suo libro sulle vicende di quei mesi.
Ho visto il luogo dove fu gettato il corpo di Lumi Videla, al fine di creare forte imbarazzo e costruire un incidente diplomatico
Nel Cile di Pinochet, mentre ad esempio quella Svizzera era chiusa e “murata”, l’Ambasciata Italiana di Santiago diventò rifugio per centinaia di uomini e donne in fuga dalla polizia segreta. Il loro destino fu per due anni nelle mani della diplomazia italiana.
Lumi era una militante del Mir, movimento rivoluzionario di sinistra, uccisa in Ambasciata, dicevano i golpisti, torturata ed eliminata e gettata all’interno del cortile affermavano gli oppositori.
Oggi nel posto dove fu fatto cadere quel corpo morto c’è una grande pietra naturale, sembra una scultura e ricorda tutti quelli che cercavano in quel giardino la libertà in un paese dominato dal terrore.
A fianco una nuova scultura, tante conchiglie sospese che mosse dal vento risuonano, solo una è solitaria, é distante e non può toccare gli altri. Sono l’opera di un ceramista italiano, Riccardo Monachesi, che mi accompagna in quel giardino e mi racconta la sua visione di Lumi e degli altri.
Emozione, brividi, rivivere in questi luoghi l’eco di quelle storie sentite raccontare troppe volte.
La sera, tornato nel mio hotel, a tavola mentre sto cenando, intercetto una conversazione tra due impresari, un nordamericano e un cileno. Il primo dice con disprezzo “la vostra Presidenta, come il nostro Obama, cerca di introdurre pezzi di socialismo nella società. Idioti!!! Non vogliono vedere che hanno già fallito in Europa?”.
Il cileno ride sguaiatamente e risponde “e prima ancora qui!”.
Chi non ha pietà è pronto, in ogni latitudine, a ripetere la barbarie. Altre ambasciate diventeranno o son tornate ad essere rifugio.
fine settembre_
Una tavola imbandita e una finestra per lanciare lo sguardo fuori ad abbracciare tutta Valparaiso.
Ma sono i bicchieri verdi, come la scrittura di Neruda, a catturarti l’occhio. Verdi sul bianco della tovaglia, bianca come la carta.
Le case di Neruda sono scrittura e poesia che miscelandosi si fa architettura e decorazione.
Neruda amava bere nei bicchieri colorati. Diceva che il buon vino “tinto” cileno guadagnava miglior sapore. Opinione e gusto visionario, da poeta.
Ma era democratico sempre, e dunque sempre era disponibile in dispensa un bicchiere trasparente per chi si fosse dichiarato insofferente nel bere in vasi rossi, gialli, blu o verdi.
29 settembre_
La Chascona ovvero la “spettinata”, la donna dalla chioma vaporosa. La terza moglie di Neruda, che lo sposa di fronte alla luna nella notte di Capri e che lo accompagna fino ad un sordido corridoio della Clinica Santa Maria, a Santiago del Cile, dove il corpo del Premio Nobel per la letteratura viene abbandonato su di una barella, dopo la sua morte, su cui a tutt’oggi aleggiano dubbi.
Fino alla fine vigila attenta e rispettosa che le cose accadano conformi ai desideri e allo stile di Pablo.
Guardate bene il tavolo nella fotografia. Era lo scrittoio preferito da Don Pablo nella sua casa di Isla Negra. E’ la porta di una barca naufragata. Narra la leggenda che Pablo la avvistò un mattino dalle finestra della sua camera da letto che si apre sull’oceano. Si vestì e scese alla spiaggia dove si sedette per lunghe ore ad aspettare che le onde e la corrente la facessero arenare. Avvenne e il relitto raccolto venne lasciato a lungo al sole e all’aria ad asciugare, poi venne trattato per conservarsi e montato in forma di tavolo. Pablo amava lavorarci più che su di ogni altro ripiano scrivendo i suoi fogli con la penna stilografica ad inchiostro verde. Il mare inondava la sua poesia anche con l’ “impeto” di questi dettagli.
28 settembre_
“Leggere gli scritti autobiografici di Neruda è come passeggiare da soli nella sua casa di Isla Negra. Pablo guarda le stagioni della sua vita con la stessa semplicità e lo stesso umile distacco con cui osservano il mare le polene che ornano la sua casa. Così resteranno, attente alle tempeste, e così ci accompagneranno per sempre i versi di Pablo Neruda, amabili sentinelle delle notti più cupe, fuoco dei giorni senza luce e senza diritti, e forza, forza per la stanchezza dei sognatori“
da EL FUNERAL DE NERUDA
Leghiamo a queste parole tratte da EL FUNERAL DE NERUDA un testo inviatoci da Valentina Perucca, spettatrice di Assemblea Teatro che ci ha sritto dopo la visione, a Torino, della ripresa dello spettacolo.
Morire ad ogni istante
E il mio agosto è finito con un bel funerale. Degna conclusione del periodo che lo ha preceduto, difficile, affascinante, con nell’aria una dose di intrigante energia alchemica di creazione-distruzione. Di voglia e necessità di ricominciare, per riappropriarmi di me stessa. Il funerale, niente paura, era quello di una persona già passata a miglior vita anni addietro, più presente e viva che mai altrove, nella parola, nei fogli, nei ricordi, nelle memorie umane, civili, artistiche di tanti. “El funeral de Neruda”, e quando la mia amica mi ha proposto di andare a vederlo non ci ho pensato un istante.
Il nome Neruda in verità è per me sufficiente, che se fosse anche stato “il giardino di Neruda” avrei acconsentito comunque. Certo un funerale ha tutto un altro appeal e dunque eccomi qui oggi, così sovraccarica di spunti e vocaboli e frasi da mettere in fila, da non sapere bene come ordinare le idee.
Poichè disgrazie e fortune non vengono mai sole il giorno prima mi ero giustamente decisa anche a leggere l’autobiografia di Pablo Neruda, “Confieso que he vivido”, un pilastro della mia libreria, quel libro così importante per me che di tanto in tanto mi sorprendevo a lanciargli occhiatine furtive e languide, quello che non si può leggere in qualunque momento ma ci si deve preparare prima, anche ad averlo in un certo senso meritato. C’è allora materiale in abbondanza per un nuovo capitolo nella saga di questo mio amore per don Pablo.
Partiamo dallo spettacolo: un’opera teatrale scritta da Renzo Sicco, presidente e direttore artistico di Assemblea Teatro, centro di produzione teatrale di Torino, in collaborazione con Luis Sepúlveda. Ieri sera veniva proiettato come film, registrazione di una delle rappresentazioni messe in scena negli anni, in uno spazio della ex caserma La Marmora. Un luogo questo già di per sè evocativo, del tutto adeguato con la storia che si racconta ne el funeral, in quanto uno dei baluardi della resistenza anti-fascista a Torino.
Il lavoro di narrazione che viene fatto è ampio, coraggioso ed incredibilmente potente perchè attraverso le parole ed il racconto di una manciata di personaggi, il poeta insieme ai suoi cari che lo accompagnarono negli ultimi momenti di vita, si scende fin nelle radici del Cile, della cui storia, lotta e memoria Neruda fu un cittadino e paladino senza eguali.
Lo spettacolo non a caso esiste da sette anni, epoca in cui è stato replicato centinaia di volte, anche durante tre diverse tournée in Sud America dove Assemblea Teatro gode di stima e affetto e grazie alla cui tenacia, il direttore e la sua compagnia sono riusciti a metterlo in scena anche più di una volta presso la stessa casa di Neruda, la Chascona, a Santiago, quella in cui tra le tre, il poeta ha passato il maggior tempo della sua vita. Il testo è inoltre stato pubblicato in un volume edito da Claudiana.
Come solitamente cerco di (non) fare, non mi esprimo più di tanto sugli aspetti tecnici dell’opera: fosse per me io definirei grandiosi gli attori, che per inciso recitano tutti in spagnolo, la scenografia di scarna bellezza, il testo appassionato e umano, con il culmine raggiunto nella parte finale, scritta da Sepúlveda, di una sorta di elogio funebre collettivo dei personaggi unito ad uno spezzone di filmato originale del funerale. Fa trattenere il respiro per entrare poco alla volta sotto pelle.
L’atmosfera nel suo complesso è dunque magnetica: come ha detto la mia amica, ti trascina dentro lo spettacolo. E siamo solo in video; non immagino cosa potrebbe diventare il giorno che mai assisterò alla sua rappresentazione dal vivo.
Intanto mi preparo. E passo alla poesia e alla biografia, al terreno su cui provo a destreggiarmi meglio, ai suoi infiniti richiami, al misto di imbarazzo e travolgimento che sempre provo quando leggo Neruda. Dopo il film, ascolto in disparte il racconto che Renzo Sicco fa dell’origine del suo testo, dell’impegno e le problematiche per costruirlo e metterlo in scena, dell’incontro con Sepúlveda, degli avvenimenti di cui ha costellato i suoi viaggi in Cile alla ricerca di materiali sul poeta, la sua famiglia e l’entourage, il suo impegno politico, il mistero in cui in parte è ancora avvolta la morte.
Ebbene ascoltandolo, trovo l’appiglio a cui appoggiarmi, su cui puntellarmi per assemblare una qualche idea che non sia retorica, già ripetuta alla nausea, vuota nel suo contenuto. E come ci si deve aspettare da certi grandi autori, è quello che fa riferimento alla potenza della parola, della forza assoluta di questo strumento per combattere ma anche sopravvivere, per formare un solco indelebile durante l’esistenza e dopo.
Renzo racconta di come le testimonianze delle persone intorno a Neruda non lascino dubbio sul suo completo affidamento ed abbandono alla parola, al potere salvifico, alla garanzia di immortalità che questa, la sola per giunta, può dare. Lui il poeta dell’amore, la cui unicità è stata di non tenere mai distinto questo sentimento dagli altri e gli altri da questo, e contemporaneamente un uomo la cui missione di essere un buon marito, amante ed amico non si sarebbe disgiunta per tutta la vita da quella di rimanere un poeta e cittadino impegnato, militante, infiammato per i diritti del suo paese come di un’umanità intera.
Tuttavia, credo che nessun artigiano possa avere, come il poeta ha, questa ubriacante sensazione del primo oggetto creato con le sue mani, con il disorientamento ancora palpitante dei suoi sogni. E’ un momento che non tornerà mai più. Ci saranno molte edizioni più belle e curate. Arriveranno le sue parole a travasarsi nel calice di altre lingue come un vino che canti e profumi in altri luoghi della terra. Però quel minuto in cui esce fresco di stampa e tenero nella carta il primo libro, quel minuto che ti rapisce ed ubriaca, per mezzo del suono delle ali che sbattono e del primo fiore che si apre all’altezza conquistata, quel minuto esiste una sola volta nella vita del poeta.
In ogni paragrafo di “Confieso que he vivido” mi sorprendo ancora una volta a ritrovare questo spirito, un incoraggiamento trasversale alla lotta ed alla scrittura, alla vita, alla sua semplicità in fondo. Un tratto per me ineguagliato di passione come di una dolcezza così spontanea da diventare talvolta infantile; l’arte coraggiosa di morire ad ogni istante, per rinascere più splendente.
“Io continuo a lavorare con i materiali che ho e che sono. Sono onnivoro di sentimenti, di esseri, di libri, di avvenimenti e di battaglie. Mi mangerei tutta la terra. Mi berrei tutto il mare.”
Valentina Perucca
Nella casa di Isla Negra c’è un cavallo. Di grandezza naturale e per il suo arrivo Neruda ha ingrandito la casa di una stanza appositamente per ospitarlo.
Pablo lo aveva visto diversi anni prima in uno dei suoi tanti giri per il Cile. Era collocato in una strada ben prima dell’avvento della pubblicità o del marketing per segnalare un negozio di ferramenta allestito in una via troppo laterale. Neruda andò dal proprietario e gli propose di comprarlo, ma quello si rifiutò perchè nessuno avrebbe più notato il suo negozio. Neruda si dispiaque e però tenne costante l’attesa e l’attenzione convinto che prima poi il tipo, ormai anziano, avrebbe dismesso l’attività. Infatti così accadde e Pablo finalmente lo aquistò. Ma nel passare del tempo era accaduto che i bambini tirando la coda al cavallo ad ogni loro passaggio l’avevano ben più che spelacchiata e ridotta a poco più di uno spazzolino. Gli invitati all’insediamento del cavallo nella casa di Isla Negra dovevano portargli regali e ben tre di loro portarono la coda. Pablo non ne scartò nessuna per cui il suo stallone ne ha una ben ricca e molto più fluente di prima.
27 settembre_
Sono stati giorni molto pieni e nei tanti spostamenti spesso è stato difficile incontrare un computer disponibile dunque ho saltato diverse tappe e riflessioni su cui tornerò.
Dopo il ricordo di Massimo però confermo che la sua assenza nell’accompagnarmi nei viaggi e nelle riflessioni immediate cambia davvero il mio Cile, ma altresì davvero il Cile ancora una volta è cambiato.
“C’è una diffusa tristezza in Cile …” scrivevo nel mio primo racconto su questo paese nel 1997. Nonostante l’ennesimo mutamento potrei però riavviare il racconto di oggi nello stesso modo, perchè l’amarezza dilaga. In Cile in questi ultimi 20 anni il fin del mundo si è incredibilmente sviluppato ed ha una vita culturale e sociale articolata e ricca che nel ’97 era impensabile. Ma aleggia nell’aria una grande tristezza che noi conosciamo col nome di “disincanto”. Non sono stati i devastanti incendi o le alluvioni, ne i recenti terremoti o maremoti a produrla o a far emergere nuove paure. Il vero terremoto è politico. Devastanti scandali hanno travolto prima la destra poi la sinistra portando alla luce sconvolgenti intrecci economici tra la Concertacion, l’alleanza di centrosinistra al potere con settori pesanti dell’ex pinochettismo. Dentro gli scandali è stato travolto anche il figlio della Bachelet, primo Presidente donna del latinoamerica, rieletta alle ultime elezioni ed ex detenuta politica durante la dittatura. Non si salva nessuno e i cileni sono sconcertati ben più per l’8.5 del recente terremoto. Dopo tante morti, torture, esilio, condizioni di vita e di lotta estreme, la fede nella democrazia si è sbriciolata.
Gettare in questo scenario le parole de “Il Funerale di Neruda” produce lacrime, silenzi e sbigottimento profondi.
Oggi a Valparaiso sono uscito dall’hotel e mi attendeva una giovane donna che non conoscevo, voleva abbracciarmi perchè dopo la visione dello spettacolo ieri sera, come tanti altri, non era riuscita a parlare. Ha pensato tutta la notte alle cose viste ed ascoltate e doveva ringraziarmi e per questo era venuta sin li e mi aspettava. Indicativo veramente e scuote anche me, non mi era mai accaduto.
26 settembre_
25 settembre_ Pablo amava molto improvvisarsi cameriere e servire aperitivi decisamente alcolici e potenti ai suoi amici. Per questo in uno dei locali della Chascona, la casa di Santiago, era installato ed allestito un vero e proprio bancone da bar.
Una prima rassegna stampa in arrivo dal Cile. Buona lettura.
http://www.cambio21.cl/cambio21/site/artic/20150922/pags/20150922165832.html
Una maglia del Toro nelle vie di Santiago – il ricordo di Massimo Arietto, conosciuto a santiago del Cile
Nella vita accadono fatti che fanno molto piacere sulla cui casualità continuiamo a interrogarci nel tempo tanto ci paiono col senno di poi passaggi obbligati e non casuali.
Un giorno di ottobre del 1999, eravamo al secondo tour di Assemblea Teatro in Sud America, passeggiavamo per Santiago del Cile nel quartiere Providencia, alla ricerca di un ristorante. Azul Profundo. Ricordavamo il nome, il piacere di quello che avevamo mangiato, ma non l’indirizzo.
Giravamo perduti, a vuoto, quando su’altro lato della strada vediamo transitare un giovane in calzoncini corti e maglietta granata del Torino Calcio. Immediata la tentazione di dire ad alta voce “Allora, cosa ci fa in Cile uno con la maglia del Toro?”.
Altrettanto rapida la risposta in piemontese “perché sun ad Rundisun!” (perché sono di Rondissone). Gridai un saluto affettuoso dicendo che eravamo quasi concittadini perché mia madre è di Borgo d’Ale, due paesi dopo il suo. Così attraversata la strada cominciammo a parlare. Gli raccontammo chi eravamo, il motivo per cui eravamo in Cile chiedendogli se ci poteva aiutare a trovare il ristorante.
Al nome di Azul Profundo arrivò la risposta più inattesa “Certo che vi posso aiutare, è mio!” Inutile dirlo, Massimo, questo il suo nome, ci trascinò al ristorante suoi ospiti. Da allora ogni passaggio a Santiago ho dovuto pensare due volte prima di prenotare un hotel per non offenderlo. Un posto a casa sua per me è rimasto sempre pronto e la cosa fantastica è che Massimo Arietto, conosciuto da tutti i cileni per una trasmissione di successo della televisione nazionale sulla cucina nel mondo, in ristorante non spadella più da tempo mi regala a casa sua quando arrivo il privilegio di tornare a cucinare e, credetemi, ne vale la pena!!! Mi scrive addirittura mail in cui oltre a dispiacersi per l’ennesima sconfitta del Toro, mi invita a raggiungerlo perché deve farmi provare una nuova ricetta. Col suo sorriso sempre aperto e la vivace costante curiosità mi apre l’accesso a molti cileni, mi conduce nei luoghi di Coloane, mi fa conoscere pescatori o mi conduce a spiare una colonia di leoni di mare.
In tutti questi anni conosco le sue tante donne, che amano follemente questo luminoso italiano. Ma seguo anche i corti circuiti che ne cambiano i volti, sino al 2009 quando appare Mariela Paz, sorella di un suo socio d’affari, è un colpo di fulmine. Intesa, matrimonio e desiderio di casa insieme e di un figlio. Nel febbraio del 2010 un terribile terremoto sveglia il Cile nella notte e anche Santiago trema. Gli telefono e due settimane dopo in transito verso Buenos Aires mi fermo a trovarlo. Percorro le autostrade lacerate dagli sbalzi della terra con lui e sua moglie sento la pena di questa gente abituata a convivere con i gorgoglii più profondi del pianeta. Guardo il mio amico che ha scelto questa città al fine del mundo perché il fondo alla via dove abiti puoi vedere come a Torino montagne cariche di neve. Il 26 dicembre del 2010 mi arriva una sua telefonata dal Cile, penso agli auguri con un leggero ritardo per via del fuso orario. Invece no, Massimo chiama perché ha bisogno di comunicare ad un amico che gli hanno diagnosticato un cancro e che lotterà con tutte le forze per vivere. Lo fa! Lo fa davvero con coraggio, convinzione e un costante positivo sorriso sulle labbra, e anche con buoni risultati che sorprendono gli stessi medici.
In maggio sono a Montevideo e faccio una deviazione. Mi aspetta supercommosso all’aeroporto di Santiago, gli occhi lucidi di felicità nell’avermi qualche giorno con lui.
In estate lo rivedo a Torino sorridente e raggiante come sempre. Mi regala un libro di Hernan Rivera Letelier “La bambina che raccontava i film” che metterò in scena dopo pochi mesi. Ci abbracciamo con la promessa di un nuovo appuntamento appena possibile a casa sua in Cile.
Non ci sarà.
Il 2 gennaio 2012 mentre sono su di un tram della linea 4 a Torino sento il tipico trillo che annuncia un messaggio. Sono i genitori di Massimo e mi avvisano della sua morte. Si svuotano i suoni e le immagini attorno. Il tram prosegue il suo cammino mentre dentro di me sento che il Cile, il mio Cile di questi ultimi 15 anni non potrà più essere lo stesso.
di Renzo Sicco
Torino – gennaio 2013
Le immagini che seguono sono state scattate da Renzo a Santiago e ritraggono appunto il ristorante di Massimo.
24 settembre_
Una sala bianca con quattro grandi schermi su tre pareti. Tutte le sedie piene e molti giovani seduti sui gradini della scala di accesso. In prima fila l’Ambasciatore Italiano Mario Ricci e la Direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura Anna Mondavio, in sala un giornalista svedese che ha appena ricordato i giorni del Nobel nell’autunno 1971, a presentare il Diretttore della Fondazione Pablo Neruda Fernando Saez che ha parole deliziose e intense nel ricordare la rappresentazione de “Il Funerale di Neruda” qui nella Chascona sei anni fa.
Io qui contento e ancora una volta stranito che sia un gruppo italiano a celebrare questo anniversario quasi come se un cileno parlasse di Dante nella principale celebrazione in Italia.
Eppure è così. E’ stato l’occhio esterno a permetterci di aprire memoria e molto di più ricostruendo quell’ultima manciata di giorni dimenticati che portarono il poeta dell’amore e dell’allegria a vivere la violenza di ore scandite da una infinita tristezza, dai bombardamenti e dalle mitragliatrici di un esercito carico di odio. Partono le immagini e il silenzio si fa teso e partecipe, scorrono molte lacrime e solo un grande applauso finale, mentre Macarena canta Gracias a la Vida di Violeta Parra – a cui solo il prossimo 4 ottobre verrà dedicato un museo qui in Cile – libera la tensione.
Un ricordo che è storia.
23 settembre_
21 settembre_ In questo lungo viaggio Torino-Amsterdam-Buenos Aires-Santiago durato oltre 30 ore sono transitato sopra le alte e immense Ande tra Mendoza e la capitale del Chile. Sono innevate di un bianco splendido, ancora vivo segnale dell’inverno che qui solo oggi volge al termine per aprirsi alla primavera. Al mio ritorno le Alpi mi indicheranno i primi segni dell’autunno. Santiago, che stanotte ha tremato un’altra volta a 6.3, mi accoglie in una tiepida luce. La saluto con stanca allegria, dal 97 quando ci arrivai la mia prima volta questo è l’atterraggio numero 31, il segno di un reincontro. Domani saprò essere piò vivace.
20/21 settembre_ Ieri notte, prima di partire, ho morsicato l’ultima anguria fresca, dolce, succosa il segno di una calda estate giunta a settembre. Parto per il Cile e tornerò ad ottobre quando l’autunno inizia a presentare i suoi colori e al rosso della polpa dell’anguria sostituisce le castagne. Torno a raggiungere le case del Poeta, ancora una volta entrerò nei luoghi intimi di chi ha saputo cantare l’anguria,la patata, la cipolla. Neruda ha regalato identità ad un continente e ad una terra, quella latinoamericana, partendo proprio dai suoi prodotti e frutti. E lo ha fatto 80 anni fa quando non c’erano Slow Food, Terramadre, Eataly, Expo nè il trionfo del Bio. C’era la poesia, e bastava.
La tappa Spagna/Portogallo di inizio settembre_
Barcelona – Renzo Sicco presenta EL FUNERAL DE NERUDA
Lisbona – Teatro da Trinidade – in scena EVITA Y YO
Porto, Teatro da Vilarinha